Buonasera a tutti e bentornati a Opera made simple, la rubrica di A punk at the Opera che vi spiega l'opera con tecniche non convenzionali. Se avete sempre pensato che i disegnini scemi, i fumetti e l'ironia gratuita mal si concilino con il mondo serio e austero dell'opera, noi siamo qui per farvi cambiare idea.
Abbiamo parlato di Solita forma, cioè, nel caso fortuito in cui ve ne siate scordati, della forma standard del pezzo chiuso d'opera nell'opera italiana a partire da Rossini fino a quasi tutta la produzione verdiana. Visto che mi sento tanto buono e perdono la vostra scarsa memoria, vi ricordo che la solita forma dell'aria è formata da quattro parti (Scena-Cantabile-Tempo di mezzo-Cabaletta), mentre la solita forma dei pezzi d'insieme aggiunge un "Tempo d'attacco" tra la scena e il cantabile (Scena-Tempo d'attacco-Cantabile-Tempo di mezzo-Cabaletta).
Tutto questo ci servirà, perché adesso dobbiamo parlare di...
No, non di Del Monaco che canta in playback facendo più o meno gli stessi versi che faccio io quando lo sento cantare (o quando chiamo le mie innumerevoli armate a raccolta dalla cabina della doccia, come possiamo vedere nell'immagine qui sotto),
ma della celebre aria Di quella pira. L'aria è la cabaletta della scena conclusiva del terzo atto del Trovatore: Manrico ha ricevuto l'informazione che il Conte di Luna ha preso Azucena e sta per ucciderla e, dal momento che, nell'opera italiana valgono sempre due principi aurei:
1) La mamma è sempre la mamma
2) Se puoi sbudellare qualcuno per qualsiasi motivo lanciandoti in una guerra inutile e sanguinosa, fallo
...egli si prepara a correre in suo soccorso minacciando sfracelli e dicendo a Leonora che deve andarsene perché hanno preso mammà ed era già figlio prima di amarti. Insomma, capisci amore, so che tu fai una parmigiana di melanzane favolosa (quelle quattro volte all'anno che tralasci di cucinare il seitan con le cipolle e la prepari), ma quella di mamma era tutt'altra cosa e se adesso me l'ammazzano resto solo con te e la tua cucina salutista.
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Madre infelice/vengo a salvarti/o teco almeno/corro a morir! |
A questo punto Manrico parte alla ricerca della mamma, Leonora rimane da sola e si mette a cucinare il seitan con le cipolle (la parmigiana non te la faccio più, fattela preparare da mammà, visto che ti piace tanto) e noi siamo tanto contenti.
Noi sì. ma qualcun altro no.
1. I do di petto di "Di quella pira" - Cantanti vs compositori, breve cronistoria di un amore mai sbocciato
In particolare a lui. Non sono riuscito a trovare il punto esatto del video (si tratta di una lettura del Rigoletto a beneficio degli studenti della Bocconi nel 1994) in cui Muti attacca la prassi esecutiva dei do di petto nel Trovatore in Di quella pira, ma mi sembra di ricordare in modo abbastanza chiaro che in qualche punto lo dica.
Allora, il problema dei do di petto di Di quella pira può essere così riassunto: per tradizione, sono stati interpolati dei do di petto in questo brano e sono molto amati e molto attesi dai loggioni. Solo che Verdi quei do di petto non li ha mai scritti e quindi c'è chi (come Muti) dice che non andrebbero mai eseguiti e chi invece dice che vanno eseguiti.
La questione posta da Muti è la seguente: da sempre, nell'opera italiana, c'è stato un certo arbitrio dei cantanti che hanno interpolato le arie modificandone note e durate per avere un effetto di maggior presa sul pubblico. Sono le cosiddette puntature, che consistono, secondo la Treccani, nella sostituzione di una nota con un'altra, generalmente più acuta, effettuata dai cantanti per meglio figurare. Abbiamo le prove (in particolare lettere, ma anche testi "ufficiali", come dediche e libri) che quasi nessuno dei compositori di opera italiani ben da prima di Verdi amasse questi arbitri dei cantanti, tant'è che già Benedetto Marcello, nel suo Teatro alla moda del 1720 (!) si scagliava contro l'eccessiva libertà richiesta dalle primedonne varie ed eventuali. Certo, erano altri tempi, tempi in cui capitava che l'opera non venisse composta dal compositore ma che venissero chiamati i cantanti, ogni cantante portava le sue "arie di baule", cioè le arie di repertorio che gli riuscivano bene e si scriveva un testo che si adattasse un po' a questo simpatico patchwork. Era l' "opera pasticcio" (o pastiche) e possiamo immaginare che capolavori dovessero venire fuori in questo modo.
Se volete conoscere meglio l'opera pasticcio e provare anche voi a casa vostra, dovete munirvi soltanto di colla vinilica e di qualche amico o amica che sappia cantare (no, quello che fa il growl nel gruppo Death metal del vostro quartiere non va bene, ci vuole un minimo di uniformità stilistica). Qui di seguito trovate le informazioni per fare il vostro attacco d'arte:
Ma l'antipatia dei compositori nei confronti dei cantanti andrà avanti a lungo: Gluck e Calzabigi, nella dedica dell'Alceste del 1767, che rappresenta il "manifesto" della riforma gluckiana dell'opera (ne parleremo prima o poi), fanno propria questa annosa polemica e se la prendono non poco con i cantanti e con i compositori troppo "morbidi" nei loro confronti, accusati di aver provocato la rovina dell'opera italiana.
Il testo in cui il buon Gluck e il caro Calzabigi fanno la loro tirata contro i cantanti è questo, per chi fosse interessato: Altezza Reale, quando mi accinsi [è Gluck che parla] a scrivere la musica per Alceste, risolsi di rinunziare a tutti quegli abusi, dovuti od a una malintesa vanità dei cantanti od a una troppo docile remissività dei compositori, che hanno per troppo tempo deformato l'opera italiana e reso ridicolo e seccante quello che era il più splendido degli spettacoli. [...] Così mi guardai dal fermare un attore nella più grande foga di un dialogo per cedere il posto ad un seccante ritornello; né mi compiacqui prolungare la sua voce nel bel mezzo di una parola unicamente per sfruttare una vocale favorevole alla sua gola; non mi lasciai indurre a mettere in mostra la sua agilità di canto con un passaggio tirato in lungo; né mai volli imporre una pausa all'orchestra affine di permettere al cantante di accumulare il respiro per una cadenza.
Boriosi, con scarso senso musicale, desiderosi solo di mettersi in mostra: questo saranno i cantanti per la maggior parte dei compositori d'opera. Anche Mozart ebbe i suoi problemi con i cantanti: quando realizzò l'Idomeneo Re di Creta nel 1781, ebbe l'immenso piacere di dover contrattare continuamente con l'anziano tenore Anton Raaff che voleva essenzialmente due cose:
1) cantare più arie
2) cantare arie più semplici, visto che ormai aveva un'età che non gli consentiva più una grande agilità vocale
Tutto questo, unito al fatto che il castrato Del Prato non era esattamente un fenomeno (tanto che Mozart da allora in poi non scrisse mai più opere in cui fossero coinvolti castrati), suscitò ovviamente profondi attacchi di simpatia del caro Wolfy, che mandava a quel paese il mondo nelle lettere che scriveva al padre.
Quindi, essenzialmente, il rapporto tra compositori e cantanti è stato per molto tempo il seguente: il compositore pensava che il cantante fosse un incapace in grado solo di rovinargli l'opera con le sue pretese e il cantante pensava che il compositore volesse limitare la sua infinita bravura assegnandogli meno arie rispetto a quante ne meritasse realmente.
Se volete conoscere meglio l'opera pasticcio e provare anche voi a casa vostra, dovete munirvi soltanto di colla vinilica e di qualche amico o amica che sappia cantare (no, quello che fa il growl nel gruppo Death metal del vostro quartiere non va bene, ci vuole un minimo di uniformità stilistica). Qui di seguito trovate le informazioni per fare il vostro attacco d'arte:
Ma l'antipatia dei compositori nei confronti dei cantanti andrà avanti a lungo: Gluck e Calzabigi, nella dedica dell'Alceste del 1767, che rappresenta il "manifesto" della riforma gluckiana dell'opera (ne parleremo prima o poi), fanno propria questa annosa polemica e se la prendono non poco con i cantanti e con i compositori troppo "morbidi" nei loro confronti, accusati di aver provocato la rovina dell'opera italiana.
Il testo in cui il buon Gluck e il caro Calzabigi fanno la loro tirata contro i cantanti è questo, per chi fosse interessato: Altezza Reale, quando mi accinsi [è Gluck che parla] a scrivere la musica per Alceste, risolsi di rinunziare a tutti quegli abusi, dovuti od a una malintesa vanità dei cantanti od a una troppo docile remissività dei compositori, che hanno per troppo tempo deformato l'opera italiana e reso ridicolo e seccante quello che era il più splendido degli spettacoli. [...] Così mi guardai dal fermare un attore nella più grande foga di un dialogo per cedere il posto ad un seccante ritornello; né mi compiacqui prolungare la sua voce nel bel mezzo di una parola unicamente per sfruttare una vocale favorevole alla sua gola; non mi lasciai indurre a mettere in mostra la sua agilità di canto con un passaggio tirato in lungo; né mai volli imporre una pausa all'orchestra affine di permettere al cantante di accumulare il respiro per una cadenza.
Boriosi, con scarso senso musicale, desiderosi solo di mettersi in mostra: questo saranno i cantanti per la maggior parte dei compositori d'opera. Anche Mozart ebbe i suoi problemi con i cantanti: quando realizzò l'Idomeneo Re di Creta nel 1781, ebbe l'immenso piacere di dover contrattare continuamente con l'anziano tenore Anton Raaff che voleva essenzialmente due cose:
1) cantare più arie
2) cantare arie più semplici, visto che ormai aveva un'età che non gli consentiva più una grande agilità vocale
Tutto questo, unito al fatto che il castrato Del Prato non era esattamente un fenomeno (tanto che Mozart da allora in poi non scrisse mai più opere in cui fossero coinvolti castrati), suscitò ovviamente profondi attacchi di simpatia del caro Wolfy, che mandava a quel paese il mondo nelle lettere che scriveva al padre.
Quindi, essenzialmente, il rapporto tra compositori e cantanti è stato per molto tempo il seguente: il compositore pensava che il cantante fosse un incapace in grado solo di rovinargli l'opera con le sue pretese e il cantante pensava che il compositore volesse limitare la sua infinita bravura assegnandogli meno arie rispetto a quante ne meritasse realmente.
2: I do di petto di "Di quella pira" - Muti vs do di petto, ovvero: la verità spesso sta in mezzo
Quindi, in effetti non è una grossa sorpresa che anche Verdi, nelle sue lettere, se la prenda con i cantanti, con le puntature e con le modifiche apportate alla sua musica e che richieda una maggiore aderenza a quanto egli aveva scritto. Ecco, Muti interpreta tutto questo come invito a eseguire soltanto quanto scritto da Verdi e ignorare completamente la tradizione esecutiva che intorno alle opere verdiane si è realizzata. Un invito che mi sento di condividere solo in parte, perché comunque la prassi esecutiva ha una sua importanza nell'opera italiana (Verdi e Rossini non sono Schubert e Wagner, per cui le esecuzioni erano praticamente tutte uguali e aderenti alla musica scritta, c'è una componente legata ai cantanti e alla tradizione che non può essere liquidata perché fa parte del corpo vivo di quella musica), ma che ha avuto perlomeno il pregio di eliminare alcuni obbrobri che la tradizione si era portata dietro riducendo l'opera a un insieme di arie rimesse alla bell'e meglio per far emergere il cantante. Per dire, ha permesso, ad esempio, di reintrodurre le cabalette della Traviata che venivano eliminate perché erano "brutte", ignorando il fatto che, se Verdi le aveva scritte e le aveva messe lì, verosimilmente un motivo c'era. E' un po' come se io decidessi di eseguire la Quinta di Beethoven senza il secondo movimento con l'alta motivazione filologica che "non mi piace, è brutto". Va un tantino contro lo spirito dell'autore, n'est-ce pas? Ma giusto un filino, eh!
Quindi, mi sento di condividere a metà Muti: è giusto tenere conto della tradizione e tenere qualche puntatura, ma l'opera non dovrebbe discostarsi eccessivamente da quelle che erano le intenzioni iniziali dell'autore. Quindi no, non puoi levare le arie perché sono brutte, ma non puoi nemmeno trasformare il Rigoletto in un'opera wagneriana che corre senza fermarsi dall'inizio alla fine senza acuti né corone.
Uno degli esempi in cui una certa "pulizia" delle incrostazioni della tradizione ha fatto sicuramente del bene è appunto Di quella pira. Muti fa un attacco radicale alla cabaletta e dice che i do di petto sono da eliminare in toto. Un assunto che non è del tutto corretto perché, come sappiamo, la cabaletta - ogni cabaletta - veniva eseguita due volte proprio perché nella seconda ripetizione i cantanti potessero fare un po' di abbellimenti e puntature. Sennò l'avrebbero eseguita una volta sola, non c'era bisogno di farla ripetere.
Il problema - e qui ha ragione Muti - è che la prassi esecutiva per molto tempo è stata questa:
Una sola ripetizione invece di due, do di petto come se piovesse, il taglio di una parte ampia della cabaletta scritta da Verdi (infatti, tra le due ripetizioni di Di quella pira c'è una piccola parte in cui Leonora dice a Manrico che lo shock per la sua partenza è troppo grande che in questo modo viene completamente tagliata). Ecco, questo, seppure spettacolare dal punto di vista vocale, è un po' un obbrobrio dal punto di vista dell'opera, perché taglia pezzi di musica senza altra motivazione che il gusto. E, ribadisco, non puoi tagliare un pezzo di musica perché "è più bellino così".
E quindi i do di petto vanno eliminati come dice Muti? No, secondo me bisogna semplicemente tornare a quello che abbiamo detto: ogni cabaletta viene eseguita due volte e la seconda volta si fanno le puntature, quindi i do di petto li puoi fare ma alla seconda ripetizione. Il che è un po' quello che si fa ultimamente: si ripete la cabaletta due volte, tra la prima e la seconda ripetizione canta Leonora e la seconda volta si fanno le puntature, come vediamo in questi due casi (vi prego anche di notare l'abbigliamento da cantante Heavy Metal tamarro anni Ottanta che Bonisolli sfoggia nel secondo video, nonché lo spadone palesemente di plastica in stile mamma-vado-al-Lucca-Comics-a-fare-cosplay che brandisce con la stessa convinzione dei vichinghi di Compiobbi centro che dopo pranzo al Lucca Comics duellano nel posto con più fango che riescono a trovare. Comunque complimenti allo scenografo e al costumista, non vedevo una cosa così tamarra dall'ultimo documentario celebrativo sugli Europe, basta metterci sotto The Final Countdown ed è perfetto):
Quindi, se è vero che non si può uccidere la tradizione, è anche vero che la tradizione non può fagocitare la volontà dell'autore. Ci vuole, come in questo caso, una certa mediazione; comunque, bisogna anche dire che negli ultimi cinquant'anni tante schifezze che si facevano "per tradizione" (Il barbiere di Siviglia con Rosina interpretata da un soprano invece che da un contralto, i taglia e incolla nella Traviata, questa strana esecuzione di Di quella pira) sono progressivamente scomparse.
3. Il supplizio: come tutto finisce, tra suicidi e omissioni,..
Il trovatore finisce male, in pratica quasi tutti i personaggi che abbiamo conosciuto muoiono (so che questo vi rende molto tristi, ma trattenetevi, vi prego). Allora, ci troviamo nel palazzo dell'Aljafería (già, alla fine dell'opera siamo tornati nel luogo in cui tutto era cominciato, tra l'altro dalle foto sembra proprio un bel posto) e quello che succede è, nell'ordine, che:
1) Manrico non riesce a sbudellare nessuno ma viene imprigionato con la madre e condannato a morte anche lui
2) Leonora, per salvare Manrico, promette al Conte di Luna di sposarlo con l'idea di suicidarsi subito dopo aver ottenuto la liberazione dell'amato (il che non mi sembra un piano geniale, però evidentemente sono strano io)...
...solo che non mostra una grande capacità di gestire la tempistica e si suicida prima che Manrico possa essere salvo, quindi il Conte di Luna si arrabbia nuovamente e fa giustiziare Manrico...
3)...e a questo punto, ma solo a questo punto, con Manrico morto, Azucena, che per gran parte dell'atto ha dormito, si sveglia e dice al Conte di Luna: "Ah, hai ucciso Manrico? Lo sai che era tuo fratello?" E quindi, mentre il Conte di Luna si dispera, lei viene portata al rogo tutta contenta perché ha vendicato la madre (che simpaticona, eh? E' contenta che Manrico sia morto perché così si è potuta vendicare. E dire che faceva una parmigiana di melanzane così buona).
E' interessante, come ha scritto un critico, questo aspetto di Azucena: ella è divisa tra l'amore per Manrico (figlio/non-figlio, come dice il Della Seta) e il desiderio di vendetta di cui Manrico deve essere la vittima. In lei vi è una lotta tra questi due sentimenti e alla fine il desiderio di vendetta ha la meglio non in modo cosciente (Azucena non decide coscientemente di far morire Manrico) ma mediante un'omissione: ella si "dimentica" di comunicare in tempo la vera identità di Manrico.
3. Per concludere: il "Miserere" e la Solita forma in Verdi
Nell'ultimo atto del Trovatore è anche contenuto uno dei brani più belli dell'opera, il cosiddetto Miserere:
In pratica, quello che succede è che Leonora sta andando a parlare con il Conte di Luna per far liberare Manrico e sente:
1) Il Miserere che viene cantato per i condannati a morte
2) La voce di Manrico che proviene dalla cella in cui è rinchiuso.
1) Il Miserere che viene cantato per i condannati a morte
2) La voce di Manrico che proviene dalla cella in cui è rinchiuso.
Ecco, questo Miserere, dal punto di vista della Solita forma, altro non è che un Tempo di mezzo, ma è talmente dilatato ed elaborato dal punto di vista melodico da diventare un brano con una identità propria. Scordatevi i trenta secondi-due minuti dei Tempi di mezzo di Donizetti e la loro banalità sonora, qui abbiamo un brano in cui Verdi si serve della libertà formale che il tempo di mezzo gli fornisce (niente doppie ripetizioni con cantanti megalomani da gestire, niente limitazioni sul numero di interpreti da far cantare come nelle arie, dove in fondo poteva cantare solo un cantante) per creare una costruzione sonora che abbia soltanto due finalità: l'effetto scenico e l'espressione dell'interiorità dei protagonisti.
E l'effetto viene ottenuto: sentiamo la voce di Manrico venire da lontano dicendo a Leonora di non scordarlo, questo muove l'animo di Leonora, che dice: "Come potrei scordarti?", il tutto mentre dall'interno del palazzo dell'Aljafería giunge il coro funebre e la campana suona a morto. La potenza emotiva che Verdi riesce a ottenere grazie alla completa libertà espressiva che può avere nel Tempo di mezzo non sarebbe stata possibile né in un Cantabile né in una Cabaletta. Quindi, il tempo di mezzo, che di fatto nessuno si era mai filato più di tanto (era sempre stato "quella roba corta che sta tra l'aria bellina numero 1 e l'aria bellina numero 2"), diventa ora il cuore dell'azione scenica e l'apice dell'elaborazione musicale.
Questo ci dice qualcosa sul modo in cui Verdi gestisce la solita forma: egli infatti si serve di quelle parti di essa che gli consentono maggiore libertà (principalmente il tempo di mezzo e il tempo d'attacco, ma anche talora i recitativi, come vedremo in Rigoletto) e vi costruisce ampie architetture melodiche in cui le parti dei cantanti e, quando è presente, del coro sono intessute con una libertà molto maggiore rispetto a quanto non fosse possibile nel Cantabile e nella Cabaletta.
Quindi, Verdi si accorge della limitatezza espressiva dell'opera tradizionale rigida a pezzi chiusi, in cui di fatto lo svolgersi della vicenda diventava un po' come la sceneggiatura dei film porno, un mero espediente per giustificare la presenza di quello che il pubblico si aspettava (nell'opera, le arie, nel film porno, be', lo sapete), ma non reagisce come Wagner, che abolisce i pezzi chiusi e elabora l'idea di un'opera che scorra senza interruzioni dall'inizio alla fine: egli procede espandendo la Solita Forma e utilizzando i tempi "intermedi" (come il Tempo di Mezzo) per costruire l'azione scenica con maggiore libertà. Il risultato di tutto questo è, come potete immaginare, un ribaltamento dei rapporti gerarchici tra le varie parti della Solita forma: se in Donizetti il fulcro della Solita Forma erano il Cantabile e la Cabaletta perché lì si trovavano i momenti più marcatamente melodici, in Verdi la centralità viene assegnata al recitativo, al tempo di mezzo, al tempo d'attacco, in quanto essi gli consentono di strutturare la musica in base a quello che sta succedendo in scena, in base a quello che i personaggi dicono e sentono e non in base a regole astratte. Troveremo ancora Cantabili e Cabalette nelle sue opere, ma saranno i tempi di mezzo (e talora i recitativi) ad attrarre la nostra attenzione perché sarà soprattutto là che la musica si fonderà con il teatro e conosceremo i tormenti di Violetta, i dubbi di Rigoletto, la voce di Manrico che da lontano prega Leonora di non scordarlo.
Dal punto di vista della forma, comunque, Il Trovatore è abbastanza conservatore: come scrive Mila, è uno sguardo nostalgico al mondo della Lucia di Lammermoor e dell'opera degli anni Trenta. Uno sguardo che fornisce però molti spunti di riflessione. Ne parleremo nella prossima puntata di Opera made simple in cui ci occuperemo dell'eredità del Trovatore, un'eredità che parte proprio dalla sua polifonia narrativa.
Hasta luego!
E l'effetto viene ottenuto: sentiamo la voce di Manrico venire da lontano dicendo a Leonora di non scordarlo, questo muove l'animo di Leonora, che dice: "Come potrei scordarti?", il tutto mentre dall'interno del palazzo dell'Aljafería giunge il coro funebre e la campana suona a morto. La potenza emotiva che Verdi riesce a ottenere grazie alla completa libertà espressiva che può avere nel Tempo di mezzo non sarebbe stata possibile né in un Cantabile né in una Cabaletta. Quindi, il tempo di mezzo, che di fatto nessuno si era mai filato più di tanto (era sempre stato "quella roba corta che sta tra l'aria bellina numero 1 e l'aria bellina numero 2"), diventa ora il cuore dell'azione scenica e l'apice dell'elaborazione musicale.
Questo ci dice qualcosa sul modo in cui Verdi gestisce la solita forma: egli infatti si serve di quelle parti di essa che gli consentono maggiore libertà (principalmente il tempo di mezzo e il tempo d'attacco, ma anche talora i recitativi, come vedremo in Rigoletto) e vi costruisce ampie architetture melodiche in cui le parti dei cantanti e, quando è presente, del coro sono intessute con una libertà molto maggiore rispetto a quanto non fosse possibile nel Cantabile e nella Cabaletta.
Quindi, Verdi si accorge della limitatezza espressiva dell'opera tradizionale rigida a pezzi chiusi, in cui di fatto lo svolgersi della vicenda diventava un po' come la sceneggiatura dei film porno, un mero espediente per giustificare la presenza di quello che il pubblico si aspettava (nell'opera, le arie, nel film porno, be', lo sapete), ma non reagisce come Wagner, che abolisce i pezzi chiusi e elabora l'idea di un'opera che scorra senza interruzioni dall'inizio alla fine: egli procede espandendo la Solita Forma e utilizzando i tempi "intermedi" (come il Tempo di Mezzo) per costruire l'azione scenica con maggiore libertà. Il risultato di tutto questo è, come potete immaginare, un ribaltamento dei rapporti gerarchici tra le varie parti della Solita forma: se in Donizetti il fulcro della Solita Forma erano il Cantabile e la Cabaletta perché lì si trovavano i momenti più marcatamente melodici, in Verdi la centralità viene assegnata al recitativo, al tempo di mezzo, al tempo d'attacco, in quanto essi gli consentono di strutturare la musica in base a quello che sta succedendo in scena, in base a quello che i personaggi dicono e sentono e non in base a regole astratte. Troveremo ancora Cantabili e Cabalette nelle sue opere, ma saranno i tempi di mezzo (e talora i recitativi) ad attrarre la nostra attenzione perché sarà soprattutto là che la musica si fonderà con il teatro e conosceremo i tormenti di Violetta, i dubbi di Rigoletto, la voce di Manrico che da lontano prega Leonora di non scordarlo.
Dal punto di vista della forma, comunque, Il Trovatore è abbastanza conservatore: come scrive Mila, è uno sguardo nostalgico al mondo della Lucia di Lammermoor e dell'opera degli anni Trenta. Uno sguardo che fornisce però molti spunti di riflessione. Ne parleremo nella prossima puntata di Opera made simple in cui ci occuperemo dell'eredità del Trovatore, un'eredità che parte proprio dalla sua polifonia narrativa.
Hasta luego!
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