domenica 8 febbraio 2015

I personaggi dell'Opera - Jean de Procida e i moderni terroristi: uno sguardo ai "Vêpres siciliennes"

E' sempre utile scoprire qualcosa di nuovo, soprattutto in ambito operistico. Per quanto mi riguarda, scopro ogni tanto di avere pregiudizi ingiustificati nei confronti di opere che poi, guardandole, rivelano in realtà spunti interessanti.

E' il caso dei Vespri siciliani, che avevo sempre evitato di vedere, evidentemente fuorviato dal primo atto che non è esattamente una delle cose migliori mai scritte da Verdi. Colpa mia, lo ammetto: ero arrivato all'ascolto molto entusiasta per la splendida ouverture, una delle migliori del nostro Peppino, e avevo pensato che i Vespri non fossero altro che l'ennesima conferma dell'assunto che un'opera con una bella ouverture ha il 75% di probabilità di essere una grandissima schifezza (l'assunto è basato soprattutto su Donizetti, ma a volte ha funzionato anche con Verdi).



Dal secondo atto in poi l'opera assume tutt'altro spessore ed accoglie senza dubbio alcune delle migliori pagine della musica verdiana.

Ma riavvolgiamo il nastro e partiamo dal principio. Les Vêpres siciliennes vengono scritti da Verdi per Parigi nel 1855. Sono gli anni del Grand Opéra nella capitale francese e Verdi scrive un'opera che è perfettamente in linea con il gusto del tempo a partire dal librettista, quello Scribe che, dalla Muta di Portici a Roberto il Diavolo firmerà praticamente tutte o quasi le opere più rappresentative del nuovo corso del teatro in musica francese.


Ma il Grand Opéra permea in tutto i "Vêpres". Cosa vi aspettate da un Grand Opéra? Volete cori giganteschi e scene piene di gente tanto per evitare che qualche piccolo teatro possa avere la malaugurata idea di mettere in scena l'opera? Nei "Vêpres" li trovate. Volete grandi scene di danza che non c'incastrano niente con la trama ma che piacciono tanto alle signore francesi in prima fila? Ecco che nel secondo atto l'azione si interrompe per una festa da ballo che dura una mezz'oretta (tanto per far capire che si fa sul serio, sissignora, mica vorremo essere da meno dei Francesi!) sulle note del cosiddetto "Balletto delle Quattro Stagioni".




E poi c'è la storia, la storia dei Vespri Siciliani, cioè della rivolta del popolo siciliano contro l'oppressore francese, anche se nella ricostruzione degli eventi sembra esserci qualche forzatura (il viceré di Sicilia Guy de Montfort secondo la mia fonte molto alta ed attendibile - ok, non sono esattamente un amante della storia medioevale - è morto nel 1288, sei anni dopo i Vespri, mentre nell'opera viene ucciso durante la sommossa).

Della trama dei "Vêpres siciliennes" e della loro versione italiana parleremo in un altro momento, basti ricordare sommariamente che trattano la storia di un siciliano che combatte contro i Francesi e che scopre di essere il figlio dei viceré francese Guy de Montfort (sì, sono le solite agnizioni alla Luke Skywalker con conseguente dubbio amletico "Uccido mio padre o tradisco la mia patria?" che costellano il mondo dell'opera lirica).

Oggi vorrei focalizzarmi invece su un personaggio che è quello di Giovanni da Procida. Secondo me, un personaggio quasi da Demoni di Dostoevskij. Allora, il nostro Giovanni torna in Sicilia per mare dopo un lungo esilio...


...e immediatamente inizia a organizzare quelli che saranno i Vespri Siciliani. All'inizio, ci rimane simpatico: il primo atto dei "Vespri siciliani" è infatti il trionfo del manicheismo, ci sono i buoni, che sono Arrigo, Elena (la donna amata da Arrigo, nonché sorella di un nobile siciliano ucciso dai Francesi) e gli altri siciliani che lottano contro i Francesi, e ci sono i Francesi, Guy de Montfort in primis, che sono i cattivi.

Bello, no?

Se fosse un'opera di Donizetti, molto probabilmente il nostro conflitto manicheo andrebbe avanti per tutta l'opera e alla fine i Francesi cattivi ucciderebbero i Siciliani buoni ed Elena impazzirebbe (c'è sempre qualcuno che impazzisce nelle opere di Donizetti).

Ma questa non è un'opera di Donizetti e la nostra morale semplice semplice si complica - e parecchio - nel secondo atto. Infatti, nel secondo atto sia il pubblico che il diretto interessato apprendono che Arrigo è il figlio di Guy de Montfort. Quindi, ora chi sono i buoni? I Siciliani che comunque vogliono uccidere il viceré e padre di Arrigo o Guy de Montfort che vuole uccidere i Siciliani? Anche Arrigo sembra fare un po' di confusione, tant'è che in pratica denuncia i suoi (ex) amici prendendosi la sua brava tonnellata di insulti e li spedisce in prigione in attesa di essere giustiziati.

Solo che Arrigo non vuole che i suoi amici muoiano: oddio, forse di Procida gliene frega il giusto, però il nostro eroe è innamorato di Elena, quindi va in carcere da lei, le spiega le complicazioni che il suo albero genealogico gli ha creato e chiede a Guy de Montfort di liberare i prigionieri oppure di uccidere anche lui insieme a loro. Guy de Monfort decide di liberare tutti e, come atto pacificatorio tra Francesi e Siciliani, decide di celebrare il matrimonio tra Elena e Arrigo.

Ecco, è qui che Procida inizia a diventare qualcosa di diverso rispetto all'eroe che combatte per la sua patria che avevamo visto fino a quel momento. Per prima cosa, lui non ha nessuna voglia di pacificazione. Secondo, vuole sfruttare il matrimonio per fare una carneficina. Quindi, prima invita Elena ad accettare di sposare Arrigo, poi - con un certo sadismo - le dice che durante le feste per il matrimonio i suoi uomini faranno uccidere più Francesi possibile. Cosa che, ovviamente, puntualmente avverrà e, quando gli uomini di Procida uccideranno Guy de Montfort, non riusciremo a provare lo stesso sollievo per la morte del tiranno che avremmo provato se la stessa cosa fosse successa alla fine dell'atto I.

E' qui che emerge, a mio parere, la dimensione Dostoevskijana di Procida. Dostoevskijana e al tempo stesso Beethoveniana: se mettiamo a confronto la sua convinzione nel perseguire l'uccisione del tiranno con l'opposizione e l'odio per il tiranno di Florestano e Leonora nel "Fidelio", vediamo che i punti in comune sono molti. Il problema è che, mentre Beethoven crea intorno ai suoi personaggi un ambiente moralmente tranquillizzante - nessuno mette in dubbio per tutta l'opera che Don Pizarro sia veramente un essere abietto e che quindi la sua sconfitta finale sia giustificata - i "Vespri Siciliani" seminano dubbi mostrando l'umanità di un tiranno, Guy de Montfort, che, più che il potere o la vendetta, desidera tornare ad essere padre di un figlio perduto tanti anni prima.

E' questo che, per usare le parole di Shakespeare, puzzles the will. E' questo che ci impedisce di applicare ai "Vespri Siciliani" le categorie morali del "tiranno" e del "ribelle" che usiamo nel "Fidelio". Guy de Montfort non ci appare come tiranno e di conseguenza Procida non ci appare come un ribelle che combatte per la libertà, nonostante i proclami che egli stesso fa.

E cosa ci sembra dunque Procida?

Un Demone, nel senso Dostoevskijano del termine. Un uomo senza altro principio che la realizzazione del suo ideale, costi quel che costi in termini di morti, sangue, vittime innocenti. Un uomo che non ha morale (altrimenti si sarebbe dovuto fermare di fronte all'amore filiale di Arrigo per Guy), ma finge di averla riempendosi la bocca dei termini "libertà" e "patria". Se Florestano e Leonora sono la rappresentazione positiva degli ideali otto e novecenteschi, della lotta per la libertà e per l'emancipazione sociale, in Procida c'è tutta la crudeltà e la violenza gratuita esercitate in nome di quegli ideali.

C'è l'idea, mutuata anche dai moderni terroristi, che la vita di un uomo possa essere soppressa nel caso in cui si voglia distruggere il simbolo che quell'uomo rappresenta. E così, come i terroristi uccidono persone che ritengono simbolo di qualcosa (pensiamo agli atti terroristici presso Charlie Hebdo, non più tardi di un mese fa: cosa volevano uccidere i terroristi ammazzando tutti quelli che trovavano sulla loro strada se non il simbolo di un'offesa contro l'Islam?), così Procida uccide Guy de Montfort perché è il simbolo dell'oppressione francese.

E questo, dal momento che Verdi ci ha fatto intuire che la complessità dell'uomo-Montfort non permette di ridurlo nel semplice simbolo del tiranno (tra l'altro, vorrei osservare come tutti gli odi - politici, religiosi, sociali - non facciano che spersonalizzare il nemico trasformandolo in simbolo; i simboli si ammazzano meglio delle persone, a quanto pare), non ci lascia la soddisfazione che abbiamo dopo lo smascheramento di Don Pizarro alla fine del "Fidelio".

Ci lascia un po' di amarezza, di certo non abbiamo l'impressione che l'opera finisca "bene", anche se le premesse ci sarebbero, in base all'interpretazione manichea Francesi oppressori cattivi-siciliani buoni. Ma le interpretazioni manichee a Verdi non piacciono (cfr. a questo proposito anche il "Don Carlos") ed è forse questo esercizio del dubbio e dell'analisi psicologica uno dei lasciti "politici" del compositore di Busseto.

À bientôt!

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