giovedì 25 febbraio 2016

Le romantiche proletarie dell'amore: "La última grela" di Horacio Ferrer e Astor Piazzolla

La poesia La última grela viene pubblicata da Horacio Ferrer nel Romancero canyengue nel 1967. Ferrer non ha ancora conosciuto Piazzolla, ma già ha quella concezione del verso come qualcosa di destinato prevalentemente alla recitazione e al canto che poi caratterizzerà la sua produzione successiva. "I versi sono musica che parla", dice e quindi presenta la raccolta recitando le poesie in essa contenute con l'accompagnamento musicale del chitarrista Augustín Carlevaro.

Il Romancero canyengue è la prima raccolta di poesie di Ferrer, che in precedenza si era dedicato soprattutto al teatro. Secondo Ferrer, nei versi qui raccolti egli per la prima volta riuscì a riconoscere una propria identità di poeta:

Iniziai [a scrivere poesia] imitando Verlaine, i francesi, [...] non trovavo una poesia che mi appartenesse. A Montevideo c'era un poeta di quartiere, Menecucho, che andava sui palchi a Carnevale. Recitava i suoi versi e li vendeva per pochi soldi. E terminava dicendo: "I miei versi sono brutti... ma sono miei." E io imparai questo. E io in quel momento non avevo né versi belli... né versi miei. Fino a che venne l'ispirazione, lo stile e la redazione del Romancero canyengue.

Il Romancero portò bene a Ferrer. Arrivò nelle mani di un certo Astor Piazzolla, che era in cerca di qualcuno che potesse scrivere dei versi che si adattassero alla rivoluzione che egli aveva portato nel tango; aveva lavorato con molti, Borges incluso, ma non era ancora soddisfatto dei risultati. Il Romancero canyengue gli fece capire di aver infine trovato quello che cercava: "Vieni a lavorare con me - disse a Ferrer - perché la mia musica è uguale ai tuoi versi!"

Racconta Ferrer:

Dopo l'apparizione del libro, Piazzolla mi venne a cercare e disse: "Se non vieni a lavorare con me, sei un imbecille". E io ci andai. In quel momento, rinunciai a un posto ben pagato di segretario dell'Università di Montevideo.

Ferrer si trasferì a Buenos Aires e iniziarono così le vicende della coppia Ferrer-Piazzolla, per me tra le più grandi della storia della musica (a mio parere insieme a - cito a memoria e in ordine sparso - Mozart-Da Ponte, Bellini-Romani, Verdi-Boito, Lennon-McCartney e Battisti-Mogol, ma il tutto è chiaramente opinabile). I due avrebbero inaugurato la loro collaborazione poco tempo dopo scrivendo l'opera María de Buenos Aires.

Ma dicevamo dell'Ultima grela. Ferrer l'aveva scritta perché fosse musicata da Aníbal Troilo, alla fine la musica fu di Piazzolla. Il termine Grela è uno dei tanti che Ferrer riprende dal lunfardo, il dialetto di Buenos Aires, quel dialetto che secondo alcuni studiosi è più vicino alla lingua napoletana che allo spagnolo. Le Grelas sono le prostitute, le romantiche proletarie dell'amore, come le chiama Ferrer nell'introduzione recitata alla canzone, quelle prostitute che il poeta immagina perdersi negli infiniti rivoli della notte, dietro sogni impossibili e dietro un destino beffardo come quello dei personaggi dell'Antologia di Spoon River:

Con uno slancio folle da Madame Bovary di Barracas al Sur si giocarono la vita nei tanghi. Qualcuna si innamorò di quel bandoneonista e per amore vinse. Per altre la sconfitta fu grande e finirono per badare al guardaroba delle donne che lavoravano in quegli stessi cabaret [in cui esse avevano "esercitato" un tempo]

Il tango parla dell'ultima di queste prostitute, che avanza con i suoi grandi occhi tristi in una Buenos Aires spettrale, fino ad essere inghiottita dall'oblio.

E' un tango che amo, perché è pervaso, nella prima parte recitata, dalle luci abbaglianti di una Buenos Aires notturna persa nel calore del ricordo, con i suoi cabaret, le sue donne bellissime, le sue prostitute assonnate intente a fare colazione con la cioccolata al mattino. Ma il calore si disperde progressivamente e alla fine il passato svanisce e rimane solo un presente di solitudine, di gelo e di rimpianto.



What became of the likely lads? - La reunion dei Libertines

Ho letto che i Libertines hanno fatto un nuovo disco e mi sono reso conto che Up the Brackets, che comprai nel 2004 alla veneranda età di tredici anni e che rimase nel mio lettore per il modico tempo di tre mesi (al tempo mi innamoravo facilmente e con molta intensità) è vecchio ormai quasi dodici anni. Non ho fatto grosse riflessioni sul tempo che passa, mi sono limitato semplicemente a mettere il disco sul lettore e notare che, nonostante i cattivi auspici di chi all'epoca diceva che dopo cinque anni i CD si sarebbero deteriorati e non avrebbero funzionato più, suona ancora e non salta nemmeno.

Comunque, i Libertines mi piacevano. Personalmente, non sono particolarmente bendisposto nei confronti dei gruppi nuovi; non dico che la musica sia morta con John Bonham degli Zep come sosteneva qualcuno ma, insomma, diciamo che la morte di Kurt Cobain e la fine del grunge hanno messo una pietra tombale su tante cose. Eppure, quell'album sembrava stranamente parlare del presente e a modo suo raccontarlo, parlare anche di me. E farlo bene.

L'album successivo era ancora meglio, secondo me. Mi rimane una frase, segnata sul diario di scuola e poi ricopiata per due o tre anni, in seguito: "Il ragazzo tirava calci al mondo, ma i calci del mondo facevano molto più male". Ci vedevo me stesso, in quella frase, diviso tra il desiderio di dire che in qualche modo c'ero anch'io ed ero diverso dagli altri e la paura che la reazione di chi mi circondava non fosse esattamente di accoglienza.

Era la sciocca adolescenza di cui parla Guccini che anch'io vissi per un po' con un vuoto mito americano/di terza mano e con gli inglesissimi Libertines nel lettore CD.

Poi, successero varie cose. Il gruppo era guidato da Carl Barat e Pete Doherty e quest'ultimo, che all'epoca si prendeva e si lasciava con Kate Moss, aveva problemi di droga. Lo buttarono fuori dalla band e i Libertines si sciolsero, uscendo così anche dal mio orizzonte musicale. Doherty fondò i Babyshambles, Barat fece qualcos'altro, ma ormai le cose erano cambiate e quelle canzoni che io avevo sentito mie, che avevano descritto perfettamente come mi sentivo in quel periodo non avrebbero avuto seguito.

Ora "Up the brackets" è finito, metto sul lettore CD "The Libertines" e riascoltando "Can't stand me now" sorrido. Perché forse, nonostante tutto il tempo che è passato, sono ancora quel ragazzo che voleva tirare calci al mondo.


L'ultimo romantico: qualche parola su Mahler...

Dicevano i Romantici che il grande autore è colui che sa unire alto e basso e non a caso essi rivalutarono e presero ad esempio Dante e Shakespeare. Se l’assunto è vero, allora Mahler è stato l’autore romantico per eccellenza. Già, perché nella musica di Mahler l’alto e il basso si fondono in modo naturale e quasi spontaneo: all'interno della complessità formale di sinfonie come la “Settima” (tuttora una delle sue opere meno eseguite) troviamo melodie da banda, temi da giostra di paese, musiche dal sapore gitano. Nella sua Prima Sinfonia, la lugubre marcia funebre del terzo movimento altro non è che la versione in minore della popolare canzone francese Frère Jacques (cioè Fra Martino, né più né meno): Mahler ne prende il tema apparentemente banale e lo trasforma, affidandolo al contrabbasso solo e rendendolo capace di evocare l’incisione che aveva trovato su un libro di fiabe, in cui gli animali del bosco portano al luogo della sepoltura la bara del cacciatore.




Ma Mahler non fu solo compositore. Fu anche uno dei direttori d’orchestra più celebri della sua epoca e il suo stile di direzione ieratico e apparentemente privo di una rigida scansione ritmica colpì molti, all’epoca. Tra questi, un ragazzino austriaco di diciassette anni di cui in seguito si sarebbe parlato abbastanza, che verso il 1906 andò a vedere la recita di un Tristan und Isolde di Wagner diretto da Mahler a Graz. Fu per lui una folgorazione, che lo fece innamorare dell’opera di Wagner al punto, alcuni anni dopo, di cercare in tutti i modi di entrare nella poco raccomandabile corte dei miracoli che si era riunita intorno ai discendenti del compositore tedesco a Bayreuth. Il ragazzino era Adolf Hitler ed è abbastanza inquietante pensare che l’uomo che sterminò sei milioni di Ebrei nell’ambito della Soluzione Finale abbia avuto la sua iniziazione al culto di Wagner proprio grazie a un musicista ebreo come Mahler. Di certo, fa capire che non necessariamente la musica migliora gli uomini, a dispetto di quello che diceva Goethe. A volte fa semplicemente sì che decidano, al termine di una guerra costata milioni di morti, di far bruciare il proprio cadavere come la salma di Sigfrido al termine del Gotterdaummerung.

Forse Hitler immaginava che nel cortile della cancelleria del Reich, prima di dare fuoco al suo corpo cosparso di benzina avvolto in un tappeto, qualcuno avrebbe cantato, come Brunilde:

BRUNILDE 

(è sola nel mezzo della scena ; dopo aver lungamente contemplato Sigfrido , prima con profonda commozione , superando la propria angoscia si volge verso le genti con solenne esaltamento) 

Là, una catasta ergetemi, 
Sui margini del Reno! fulgido, eccelso 
Il foco avvampi, che le forti membra 
Del sommo eroe consunte renderà ! 
Si guidi al rogo il suo destriero, ond'esso 
Lo segua : dell'eroe partire il fato 
Desio supremo è delle carni mie ! 
Si compia il voto di Brunilde ! 


Non ebbe vita facile, Mahler. Nonostante la fama ottenuta come direttore e come compositore, incontrò sempre sulla sua strada lo spettro dell’antisemitismo, che, come già avvenuto anni prima per Mendelssohn in Germania, rese estremamente difficile il suo lavoro a Vienna. Nel 1909 andò in America, dove ottenne un notevole successo, ma dovette ritornare precipitosamente in patria per via dell’aggravamento di un’endocardite batterica di cui soffriva dal 1906 e di cui morì, nel 1911, a cinquant’anni.

La sua opera fu un ponte tra la Vienna felix degli Strauss, oggi celebrata nei vari concerti di capodanno in tutto il mondo, e la Vienna inquieta da cui emergeranno Schoenberg, Berg, Webern. Egli scrisse su un ponte teso tra la vita quotidiana, la musica udita nelle strade, nei locali, e la trascendenza, il desiderio di elevarsi fino al cielo, di penetrare l’ignoto. E di poter dire, come nei versi di Klopstock messi in musica al termine della sua Seconda Sinfonia (La Resurrezione):

Auferstehn, ja, auferstehn wirst du,
Mein Staub, nach kurzer Ruh’

…cioè:

Risorgerai, sì, risorgerai
Mia polvere, dopo breve quiete