domenica 29 novembre 2015

La sigaretta di Gardel - Ascoltando "Volver"...

La tomba di Gardel si trova nel Cementerio de la Chacarita, a Buenos Aires, che per molti versi è un po' il Père Lachaise del tango. Qui sono sepolti, tra gli altri, Enrique Discépolo, tra i più grandi autori di tanghi, "El Polaco" Roberto Goyeneche e il bandoneonista Anibal Troilo, nella cui orchestra suonò anche Piazzolla agli inizi della sua carriera. Ci è anche sepolto colui che, con i suoi scritti, mi ha fatto scoprire il tango, Osvaldo Soriano.

Nel cimitero, c'è una statua di Gardel. Gli argentini vanno ad accendere la sigaretta alla statua, dicono che porti fortuna. Forse è così, quando riuscirò ad andare a Buenos Aires verificherò di persona.

Di certo c'è che in questo inizio di inverno, quando l'anticiclone che ci aveva protetto dal gelo inizia a fuggire verso est (o verso ovest? Non ho mai capito molto di metereologia), ancora vado a cercare su YouTube "Volver". Mi fa sorridere ricordare come l'ho conosciuta, sentita per caso in un film di Almodovar che andai a vedere in uno di quei cinema estivi che per tre euro ridanno tutto quello che è uscito l'inverno precedente. Eppure, benché l'abbia conosciuta per caso, questa canzone per molti versi rappresenta un desiderio che ho avuto spesso, quello di tornare.

Tornare dove? In un luogo della memoria, in un luogo dove, come quella poesia di Baudelaire tutto è ordine, calma, voluttà. Ai miei sedici anni, forse, quando sapevo poco e quel poco mi bastava, o forse ai miei diciotto, a quella voglia di vivere, di conoscere, di andare avanti. Di crescere.

Eppure, oggi, riascoltandola, mi rendo conto che non voglio tornare. Non ho nostalgia del passato, nonostante l'inverno alle porte e la pioggia che ieri mi ha inzuppato fino alle ossa ritornando dal centro (se a questo giro evito la broncopolmonite vuol dire che il mio sistema immunitario si è dopato, non c'è altra spiegazione). Voglio andare avanti, ora, e ritrovare con la voglia di vivere la mia giovinezza, che credevo di aver perduto.

E quindi ascolto questa canzone con un sorriso, con il sorriso del marinaio che lascia la terra per riabbracciare, finalmente, l'oceano.


sabato 28 novembre 2015

Kinderjohren - Mordechai Gebirtig e l'infanzia perduta dell'Europa

Questo post è cresciuto con il tempo e forse si vede. Volevo scrivere semplicemente qualcosa su una canzone di cui per molto tempo ho saputo la melodia a memoria, senza conoscerne il titolo, e di cui poi improvvisamente ho appreso tutto un 27 gennaio quando l'ho sentita cantare a un concerto per il Giorno della Memoria. Volevo scrivere qualcosa solo su questo e su Gebirtig, l'autore di Kinder Yorn, morto a Cracovia il 4 giugno 1942 durante la liquidazione del ghetto, ma poi il 13 novembre ci sono stati i fatti di Parigi e allora qualcosa mi è sembrato risuonare, qualcosa che legava quegli eventi lontani ormai più di settant'anni a quello che è successo qui, ieri, nel nostro mondo che riteniamo ormai tranquillo e pacificato. Ho sentito tornare quella tentazione di guardare gli uomini senza vederne il volto, come se fossero le figure anonime e deformate di quel quadro di Munch, Sera su via Karl Johann. E quindi il post è aumentato e forse, nella parte finale, si è un po' allontanato dal suo intento iniziale. Spero che mi perdonerete la prolissità.

C'è stato, qualche anno fa, un periodo in cui ero sufficientemente fissato con Boccadoro da decidere che il materiale musicale reperibile su YouTube non mi bastava e deambulare su Amazon per comprare la registrazione della sua collaborazione con Moni Ovadia Racconti di ieri - Cantata su melodie Yiddish.

E' lì che ho scoperto Kinder Yorn o, secondo altre notazioni, Kinderjohren. E' una canzone yiddish che parla di anni di giovinezza perduti, di immagini sbiadite che rimandano a volti e luoghi ormai scomparsi. E' una canzone nostalgica e del resto la nostalgia è connaturata a molta parte della cultura e musica yiddish, la cultura e la musica di un popolo, quello ebraico della Mitteleuropa e dell'Europa Orientale, costantemente vittima di persecuzioni fino alla tragedia finale della Shoah.

L'autore di questa canzone, Mordechai Gebirtig, ha una storia che merita di essere raccontata.

1. Un socialista di fronte alla guerra

Gebirtig era nato a Cracovia con il nome di Markus nel 1877 e nella stessa città morì, nel 1942, durante la liquidazione del ghetto da parte dei Nazisti. Era stato un uomo attento alle questioni del suo tempo, non certo un intellettuale chiuso nella sua torre d'avorio a ragionare sui massimi sistemi: sensibile alle questioni sociali, era stato socialista e membro del Partito Socialdemocratico di Galizia e molte delle sue canzoni erano state pubblicate sul giornale Der sotsyal demokrat, che era l'organo di stampa di lingua Yiddish di tale partito.

Mortdechai Gebirtig com'era (immagine da http://www.jewishgen.org/)
...e come me l'immagino io.

Aveva vissuto la guerra, quella Prima Guerra Mondiale in cui il vecchio Impero Austroungarico che poi sarebbe stato raccontato con nostalgia da Zweig e da Werfel avrebbe visto la propria sconfitta e la propria disintegrazione. Una morte premonitrice, in qualche modo: un Impero che aveva vissuto della mescolanza di più culture, un Impero che aveva permesso di creare a Vienna l'ambiente in cui si era sviluppata la gran parte della musica strumentale colta dalla fine del Settecento all'inizio del Novecento, moriva soffocato dai nazionalismi che avrebbero poi attraversato tutto il secolo. Durante gli anni della guerra, Gebirtig respirò per l'ultima volta quella miscela di voci, di lingue, di canti che per molti anni aveva costituito l'Impero.

Durante la prima guerra mondiale, Gebirtig lavorò negli ospedali militari, dove
conobbe persone di diversa provenienza, che condivisero con lui le
loro melodie popolari


Fu al fronte; poi, visto il suo stato di salute precario, fu mandato a lavorare negli ospedali militari e fu allora che, come possiamo leggere qui,

...entrò in contatto con un gruppo di persone di varia origine. Negli ospedali della prima guerra mondiale, Gebirtig per la prima volta incontrò Cechi, Ungheresi, Serbo-Croati e Romeni, che condivisero con lui le loro melodie popolari.


(tratto da holocaustmusic.org

Il risultato di questi incontri furono i suoi scritti, le sue poesie e le sue canzoni.

2. Reisen e Hoffmann

Ci sono due figure fondamentali per la produzione letteraria e musicale di Gebirtig.

La prima è Abraham Reisen. Reisen era un poeta e scrittore Yiddish;  fu conosciuto soprattutto per i suoi racconti, spesso ambientati negli shtetl, le piccole città a maggioranza ebraica dell'Europa centrale, e venati da un'attenzione per le classi sociali più umili che derivava dalle sue simpatie socialiste. L'incontro tra i due avvenne nel 1906, a Cracovia. Reisen, all'epoca, era uno scrittore conosciuto in città, mentre Gebirtig stava cercando di farsi conoscere come attore. Quell'anno, Gebirtig ottenne un certo successo recitando come protagonista nell'opera teatrale Ghetto di H.Heyerman e fu tale successo che attirò l'attenzione di Reisen.


Reisen conobbe Gebirtig dopo il successo della sua interpretazione
nell'opera teatrale "Ghetto"

Fu Reisen ad avvicinare Gebirtig alla letteratura: lo spinse a scrivere recensioni teatrali e poi poesie e fu dunque naturale, a quel punto, che Gebirtig, seguendo una tradizione consolidata nella musica Yiddish, iniziasse a mettere in musica i suoi componimenti, scrivendo canzoni che riscossero un successo crescente.

"Ehi, non hai mai pensato di provare a scrivere qualcosa?"
Mancava, a queste canzoni, ciò che poteva permetterne la trasmissione fino ad oggi: la loro notazione in forma scritta. Gebirtig, infatti, veniva da un ambiente povero, non aveva studiato musica e non sapeva scrivere le note. E' qui che entra in scena il musicista Julian Hoffmann. Hoffmann, dopo aver conosciuto Gebirtig, ne registrò e trascrisse le canzoni. E' grazie a lui se la produzione di Gebirtig non è andata perduta ed è arrivata fino ad oggi.

Il più importante libro di poesia di Gebirtig  è Mayne Lider (Le mie canzoni), che fu pubblicato nel 1936. Hitler era salito al potere tre anni prima; il 1° settembre di tre anni dopo le truppe tedesche avrebbero invaso, contemporaneamente all'Armata Rossa, la Polonia in cui Gebirtig viveva, distruggendo le ultime vestigia di quel mondo che il poeta Yiddish aveva cantato talora con nostalgia (come in Kinderjohren), talora con rabbia.

Gli anni dell'infanzia (i "Kinderjohren") dell'Europa che aveva provato a rinascere dopo la Grande Guerra erano finiti e perduti per sempre.
Gebirtig con la sua principale raccolta di poesie, Mayne Lider



3.  One of the multitude: da Cracovia a Parigi

La vita di Gebirtig è simile a quella di molti ebrei della sua generazione: nato in un ambiente povero, visse nella convinzione di essere un uomo tra i tanti, si interessò di politica, scrisse canzoni e cerco di farle conoscere, partecipò alla guerra. Poi venne un giorno in cui gli dissero che no, effettivamente lui non era come gli altri, che la religione con cui era nato faceva sì che egli fosse un indesiderato, da internare e da eliminare. La pallottola che lo uccise, quel 4 giugno 1942 che fu poi ricordato come il "Giovedì di sangue", mentre le SS trasportavano gli ebrei del ghetto di Cracovia ai furgoni che li avrebbero condotti al campo di sterminio di Belzec, colpì un uomo che l'ideologia aveva privato di qualunque identità: per i burocrati dello sterminio, non era più un socialista, un autore di canzoni, un individuo che, come ogni individuo, è diverso dagli altri. Per costoro, egli era divenuto "parte della moltitudine", di quella moltitudine che il Nazismo aveva deciso di sterminare.

Peter Singer, nel suo Pushing Time Away: my grandfather and the tragedy of Jewish Vienna, in cui ripercorre la vicenda di suo nonno, David Oppenheim, che aveva collaborato con Freud e poi con il suo "rivale" Adler e che morì a Theresienstadt un anno dopo Gebirtig, intitola l'ultimo capitolo del suo libro One of the multitude e osserva come in realtà ben poco accomunasse gli Ebrei che facevano parte di quella "moltitudine" che i Nazisti condussero allo sterminio. Erano persone che avevano creduto in ideologie diverse, che avevano avuto un approccio diverso in relazione alla religione (David Oppenheim era ateo, ad esempio), che avevano condizioni sociali diverse, ma che furono tutte ricondotte ad una medesima categoria da inviare allo sterminio.

Il ragionare "per categorie" rinunciando a vedere le persone non è purtroppo morto con il Nazismo. Qualcuno ricorderà, qualche anno fa, la strage di Tolosa, in cui tre bambini furono uccisi per il semplice fatto di essere ebrei e purtroppo anche pochi giorni fa, a Parigi, si è sparato su uomini e donne senza chiedere chi fossero o che cosa facessero, senza sapere quali fossero i loro interessi, la loro visione della vita, la loro condizione sociale, ma semplicemente perché rappresentavano "il Nemico" e in quanto tali dovevano morire. Senza saperlo, le vittime erano parte di una moltitudine che qualcuno aveva deciso che doveva essere eliminata in nome di una folle idea di "responsabilità collettiva" dell'Occidente in chissà quali vicende storiche o contemporanee. In fondo, non è una visione molto diversa da quella dei Nazisti, che attribuivano agli Ebrei una "responsabilità collettiva" per tutti i mali del mondo e da quella di tutte le ideologie più o meno velatamente totalitarie che si arrogano il diritto di decidere che una determinata categoria (sociale, religiosa, politica ecc.) è responsabile di tutte le storture della vita e di quello che non va nell'universo e che i suoi membri devono pertanto essere eliminati in modo figurato o in modo fisico.

Personalmente, non credo alle responsabilità collettive, al "per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti" che cantava De André. Ognuno risponde di quello che fa, perché ognuno è una persona diversa dalle altre e deve essere valutato e giudicato separatamente rispetto agli altri. Mettere una persona in una categoria perché va in Sinagoga piuttosto che in Chiesa o perché è nata a Parigi piuttosto che a Beirut equivale a privarla dell'unico diritto di cui ogni uomo gode per il semplice fatto di esistere: il diritto all'unicità e il diritto a rispondere soltanto per quello che facciamo e non per quello che hanno fatto i nostri padri, i nostri compatrioti e i nostri vicini di casa. E vuol dire dimenticare che nella Shoah non sono morti "gli Ebrei": nella Shoah è morto Mordechai Gebirtig, è morto David Oppenheim, sono morte sei milioni di persone che erano nate da qualche parte, avevano avuto un carattere più o meno gradevole, un lavoro più o meno soddisfacente, degli hobby, degli amici, degli amori finiti bene o male. Che avevano avuto un volto e un nome che sarebbe risuonato nelle memorie dei loro figli e dei loro nipoti.

E adesso ascoltiamo Kinderjohren: questa è la trascrizione fonetica del testo Yiddish (presa da qui e da qui)...

Kinderyorn, size kinderyorn
Eybik blaybt ir vakh in mayn zikorn;
Ven ikh trakht fun ayer tzayt,
Vert mir azoy bang un layd.
Oy, vi shnel bin ikh shoyn alt gevorn.

Nokh shteyt mir dos shtibl far di oygn,
Vu ikh bin geboyrn oygetzoygn
Oykh mayn vigl ze ikh dort,
Shteyt nokh oyf dem zelbn ort -
Vi a kholem is doz altz forfloygn.


Un mayn mame, akh, vi kh'fleg zi libn,
Khotsh zi hot in kheyder mikh getribn;
Yeder knip iz fun ir hant
Mir nokh azoy gut bakant
Khotsh keyn tseykhn iz mir nisht farblibn.


Nokh ze ikh dikh, Feygele, du sheyne,
Nokh kush ikh di royte beklekh dayne,
Dayne oygn ful mit kheyn,
Dringen in mayn hartz arayn,
Kh'hob gemeynt, du vest amol zayn mayne.

Kinder-yorn, yunge sheyne blumen!
Ts'rik tsu mir vet ir shoyn mer nisht kumen;
Yorn alte, troyerike,
Kalte, more-shkhoyredike,
Hobn ayer sheynem plats farnumen.


Kinderyorn, kh'hob aykh ongevoyrn.
Mayn getraye mamen oykh farloyrn,
Fun der shtub nishto keyn flek,
Feygele iz oykh avek,
Oy vi shnel bin ikh shoyn alt gevorn.


...e questa è la traduzione (basata sulla traduzione inglese reperibile alle medesime fonti, ma ho apportato alcune modifiche basate sulle mie conoscenze di tedesco; eventuali critiche e miglioramenti sono benvenuti):

Anni dell'infanzia, dolci anni dell'infanzia
Per sempre rimarrete nella mia memoria
Quando penso ai vostri tempi
divento triste e pieno di rimpianto.
Oh, come sono diventato vecchio rapidamente!

Ancora mi sta davanti agli occhi
la piccola casa dove sono nato e cresciuto
Anche la mia culla vedo là
Sta ancora al solito posto.
Come un sogno, tutto questo è sparito.

E mia mamma, ah, come l'ho amata
Anche se (Khotsch) mi ha fatto andare alla scuola ebraica (letteralmente: alla kheyder. Le kheyder, il cui nome in Yiddish significa "stanza", erano delle scuole in cui i ragazzi e a volte le ragazze ebrei imparavano a leggere la Bibbia ebraica. Per maggiori informazioni potete guardare qui)
Ogni pizzicotto della sua mano
E' ancora da me ben conosciuto
Anche se nessun segno è rimasto su di me.

Ancora ti vedo, bella Feyegele,
Ancora bacio le tue guance rosse
I tuoi occhi pieni di grazia
Entrano nel mio cuore
Avevo pensato che tu un giorno saresti stata mia.

Anni dell'infanzia, giovani, cari fiori!
Non tornerete mai più di nuovo (ts'rik) da me
Vecchi anni, tristi (troyerike)
Freddi, dolorosi
hanno preso il vostro (ayer) bel (sheynem) posto.

Anni dell'infanzia, vi ho perso
Anche la mia cara mamma l'ho persa
Della casa non rimane alcuna traccia
E anche Feygele se n'è andata.
Oh, come sono diventato vecchio velocemente!


Di seguito, trovate qualche interpretazione della canzone, tra cui una versione italiana di Antonella Ruggiero. Come potrete sentire, di solito Kinder Yorn non viene eseguita per intero, ma almeno una strofa viene omessa, di solito la terza ("Un mayn mame...") o la quinta ("Kinder-yorn, yunge sheine blumen!").





Per approfondire:

Sul sempre ottimo antiwarsongs.org trovate il testo in Yiddish di Kinder Yorn con la traslitterazione e la traduzione in varie lingue (manca, purtroppo, la traduzione in Italiano, c'è solo il testo della versione di Antonella Ruggiero)

Per il testo e la traduzione di Kinderjohren in inglese potete guardare sui seguenti siti:

http://zemerl.com/cgi-bin/show.pl?title=Kinder+Yorn

http://janeenkinmusic.com/kinder-yorn-childhood-years

Trovate delle note biografiche su Mordechai Gebirtig, l'autore di Kinderjohren su:

http://findingaids.cjh.org/index2.php?fnm=MorGebirtig&pnm=YIVO

http://holocaustmusic.ort.org/places/ghettos/krakow/gebirtigmordechai/

"Le mie canzoni", la più importante raccolta di poesie di Mordechai Gebirtig, è pubblicata in Italia dalla Giuntina:

http://www.giuntina.it/Fuori_collana_4/Le_mie_canzoni_201.html

giovedì 5 novembre 2015

Guccini e "Incontro": un post dal mio vecchio blog

Non è mia abitudine rileggermi. Mi sono però ritrovato per le mani il mio vecchio blog, creato al primo anno di università nell'ambito dell'unico corso di informatica che mi sia davvero servito a qualcosa. Vorrei riprendere qualcosa, dei testi di quel blog, per creare un'idea di continuità. Partiamo da qui.

"Incontro" è, a mio parere, una delle canzoni più belle di Guccini. Ha quel sottile velo di malinconia, fatto di occasioni mancate, di giorni 'perduti a rincorrere il vento'(come dice De Andrè), di rimpianti, che avvolge una storia apparentemente banale - un ritrovarsi dopo molti anni, dopo la fine della giovinezza, di molti sogni e illusioni - facendola risuonare dell'amara consapevolezza di una sconfitta. Sconfitta che è in primo luogo personale: i protagonisti della canzone hanno dovuto abbandonare i loro aneliti a un'esistenza diversa rispetto alla realtà in cui erano cresciuti per calarsi nell'identico grigiore da cui avevano sognato di fuggire. La vita, il tempo hanno lasciato segni indelebili su di loro e forse sull'intera loro generazione, su quella generazione che aveva vagheggiato l'America e aveva dovuto infine accettare quella che Guccini chiama la nostra città tanto triste. Ciò che resta è solo un senso di disorientamento, che viene espresso nell'ultima strofa.

Sulla genesi della canzone il cantautore di Pavana disse: "'Incontro' parla di un'amica mia che, bontà sua, era innamorata di me. Era anche molto carina, ma aveva poche tette e io ero molto sensibile all'argomento (...) Poi si trasferì a Berlino e fu lì che s'innamorò di un altro, un tipo piuttosto instabile, purtroppo: s'impiccò. Al suo ritorno in Italia, la mia amica venne subito a cercarmi per raccontarmi cos'era successo. Andai a trovarla e dopo quel pomeriggio trascorso insieme scrissi 'Incontro'".

La canzone fu pubblicata nel capolavoro "Radici"(1972); di seguito vi propongo il testo e un Guccini d'annata che esegue "Incontro" al programma "Ciao torno subito" nel 1973.

E correndo, mi incontrò lungo le scale, quasi nulla mi sembrò cambiato in lei; 
la tristezza poi ci avvolse come miele per il tempo scivolato su noi due. 
Il sole che calava già rosseggiava la città 
già nostra e ora straniera e incredibile e fredda. 
Come un istante deja vu, l'ombra della gioventù, ci circondava la nebbia...

Auto ferme ci guardavano in silenzio, vecchi muri proponevan nuovi eroi, 
dieci anni da narrare l'uno all' altro ma le frasi rimanevan dentro in noi: 
"Cosa fai ora? Ti ricordi? Eran belli i nostri tempi, 
ti ho scritto - è un anno - mi han detto che eri ancor via". 
E poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia, stoviglie color nostalgia... 

E le frasi, quasi fossimo due vecchi, rincorrevan solo il tempo dietro a noi, 
per la prima volta vidi quegli specchi, capii i quadri, i soprammobili ed i suoi. 
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway, 
il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste: 
la mia America e la sua diventate nella via la nostra città tanto triste... 

Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accesi forse per noi lì 
ed infine, in breve, la sua situazione, uguale quasi a tanti nostri films: 
come in un libro scritto male, lui s' era ucciso per Natale, 
ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio: 
povera amica che narravi dieci anni in poche frasi ed io i miei in un solo saluto... 

E pensavo dondolato dal vagone: "Cara amica il tempo prende il tempo dà... 
noi corriamo sempre in una direzione ma qual sia e che senso abbia chi lo sa... 
restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento, 
le luci nel buio di case intraviste da un treno: 
siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno..."


Sottomissione: Houellebecq tra i rinoceronti

Con il consueto ritardo legato al fatto di dipendere dalla biblioteca comunale (che mi ha fatto risparmiare qualche migliaio di euro in pochi anni) per il mio rifornimento mensile di libri, sono riuscito a leggere lo "scandaloso" Sottomissione di Michel Houellebecq, che ha avuto una notevole risonanza soprattutto dopo gli attentati del 7 gennaio nella sede di Charlie Hebdo. Devo precisare che sono abbastanza asettico nei confronti di Houellebecq, autore che ha strenui difensori e detrattori altrettanto accaniti e che ha sempre fatto propria un'immagine di misantropo e un gusto per la provocazione con il verosimile scopo di alimentare questa divisione. L'ennesima variazione dell'adagio di Oscar Wilde "Che si parli di me, nel bene o nel male, purchè se ne parli", insomma, ma del resto oggi il mondo della letteratura è fortemente affezionato alla figura dello scrittore-star piuttosto che ai libri in sé (del resto, chi legge più?) e quindi non trovo scandaloso che un autore di successo ricorra allo stereotipo tradizionale del maudit per tenersi a galla.

Ammetto di essere stato attratto dal libro più per il vespaio che la sua uscita in Francia ha suscitato che per un reale interesse verso l'autore, peraltro abbastanza lontano da quello che leggo di solito nell'ambito della letteratura francese (ultimamente, mi sono fissato sul buon Frédéric Beigbeder) e quindi di non essere molto diverso dai curiosi che tirano giù un volume dallo scaffale semplicemente "perché se ne parla".

Il tema del libro è, come noto, l'Islam. Houellebecq fa propria una tesi che, da Tacito in poi, emerge ogniqualvolta una società si senta, a torto o a ragione, in declino, ovvero che è necessario che a tale declino faccia seguito l'arrivo di "barbari" in grado di ripristinare una morale originaria. Tacito aveva simpatia per i barbari in questione, i simpatici Germani che affogavano gli omosessuali nelle paludi sembravano avere un forte ascendente su di lui, Houellebecq invece individua i nuovi barbari nei musulmani, ossia nei fedeli di una religione per cui non sembra avere particolare stima, come dimostrato da numerose sue dichiarazioni.

La vicenda è ambientata nel 2022, anno in cui Marine Le Pen è in procinto di vincere le elezioni in Francia e in cui, per evitare questo, il Partito Socialista e l'UMP scelgono di appoggiare il candidato della Fratellanza Musulmana Mohammed Ben Abbes, che diventa pertanto Presidente della Repubblica. Ben Abbes vince le elezioni e dà vita a un governo di coalizione sostenuto dai socialisti e dalla destra moderata che, nell'ordine:
  1. Fa uscire le donne dal mondo del lavoro dando loro un sacco di contributi per stare a casa grazie ai fondi generosamente concessi dall'Arabia Saudita (ah, gli sceicchi... Oggi il PSG, domani il mondo!)
  2. Istituisce la poligamia e proibisce l'abbigliamento "indecente" (causando probabilmente il licenziamento del giornalista di Studio Aperto che ogni 2-3 mesi propina il solito servizio sulla necessità di eliminare i pantaloni a vita bassa nelle scuole)
  3. Chiude le scuole pubbliche al di sopra delle nostre scuole medie, facendo sì che, per andare al liceo, sia necessario rivolgersi ad una delle scuole musulmane sorte come funghi in Francia grazie al gentile interessamento dei soliti sauditi
  4. Fa diventare la Sorbona un'università islamica controllata dai finanziamenti sauditi
  5. E, infine, colpo di scena, litiga con i sauditi e inizia a privilegiare le relazioni con il Qatar (non ci si può manco più fidare degli amici...)
Il tutto, ovviamente, avviene nella totale indifferenza della popolazione francese e senza che niente si muova in un Paese che viene presentato all'inizio del libro come sull'orlo di una guerra civile, con scontri armati nelle piazze tra estremisti di destra e estremisti islamici. La vittoria di Ben Abbes fa calmare tutto, gli estremisti di destra si volatilizzano, la Le Pen viene fagocitata da un buco nero e la Francia avanza felicemente verso la Repubblica Islamica.

Ora, tutto questo è quantomeno inverosimile e mi sono permesso un po' di ironia, però credo che l'obiettivo di Houellebecq non fosse tanto il delineare un quadro credibile di quello che succederebbe se un partito islamista vincesse le elezioni francesi, quanto mostrare come la corruzione morale della classe dirigente transalpina permetterebbe a questa di adeguarsi a qualunque nuovo regime senza colpo ferire.

E' qui, a mio parere, l'interesse del libro, cioè l'analisi di un'élite politica e intellettuale talmente interessata a rimanere tale da accettare qualunque cosa per mantenere il proprio potere. Per quanto riguarda la politica, l'atteggiamento del Partito Socialista che Houellebecq presenta nel libro (cioè quello di appoggiare chiunque purché non vinca Mme Le Pen) ha delle basi nella cronaca politica francese da almeno un anno a questa parte. Infatti, la caduta di Hollande nel sondaggi ormai costante da due anni in qua e la contemporanea ascesa del Front National non ha spinto il PS a cercare una strategia politica più attenta alle diseguaglianze sociali che determinano la crescita del Front National e che talora si manifestano in modo violento come avvenuto di recente con il caso dell'aggressione ai manager di Air France da parte dei lavoratori, no, lo ha spinto a:
  1. Cercare di sembrare più "di destra", più "liberale", compito, questo, brillantemente svolto dal ministro dell'Economia Emmanuel Macron che almeno una volta alla settimana fa la sua sparata sul fatto che le ore di lavoro sono poche (una delle sue perle è la seguente: "la gauche a pu croire, il y a longtemps, que la France pourrait aller mieux en travaillant moins. Tout cela est désormais derrière nous"), che bisogna rimettere in discussione le 35 ore e così via.
  2. Cercare di far passare l'idea che è possibile sostenere candidati di quella che una volta di chiamava UMP e che oggi si chiama les Républicains (la sostanza non cambia, è il partito di centrodestra di ispirazione gollista che è guidato dal buon Sarkozy) per evitare di far vincere qualunque tipo di elezione al Front National
Come possiamo vedere, non è poi niente di particolarmente distante dagli scenari pseudo-apocalittici di Houellebecq e del resto questo trasformismo del PS rientra in una "destrizzazione" della sinistra che si osserva fin dai tempi di Tony Blair nel Regno Unito e di cui abbiamo già parlato altrove.

Comunque, Houellebecq fa diventare il simbolo del trasformismo della classe politica francese il buon François Bayrou, eterno leader del MoDem e Presidente del Consiglio sotto Ben Abbes, ma è tutto il sistema politico francese ad essere sotto accusa.

Non viene presentata in modo migliore l'élite culturale, incarnata dal protagonista del libro, il professore universitario ed esperto di Huysmans François, che, del tutto privo di una morale forte fin dall'inizio del libro, alla fine accetta di convertirsi all'Islam per poter insegnare all'università e per poter così usufruire dei matrimoni combinati tra professori e studentesse che l'istituzione garantisce. In pratica questi, ossessionato all'inizio del libro dalla paura che dopo la fine della relazione con una delle sue studentesse, Myriam, non sarà in grado di sedurne altre per via del suo decadimento fisico, alla fine accetta il cambiamento di regime perché gli permette di continuare a fare, sotto altre forme, quello che faceva prima e che l'età non gli avrebbe più permesso di fare. Peraltro, è abbastanza interessante notare come le persone che avvicinano François all'Islam lo facciano con argomenti quantomeno misogini, sottolineando come sia bello che tale religione sottometta la donna all'uomo, mostrando quindi come le conversioni, all'interno dell'élite culturale, siano guidate più da un mero interesse sessuale e dalla volontà di sentirsi ancora come l'arcaico "uomo forte" piuttosto che da un vero convincimento spirituale.

Tutto questo mi ha ricordato molto due opere. La prima è la pièce di Ionesco Il rinoceronte, che descrive la progressiva trasformazione di un gruppo di personaggi in rinoceronti. Ovviamente, l'opera teatrale rappresenta in modo velato come possa avvenire che un'ideologia totalitaria (rappresentata simbolicamente dalla trasformazione in rinoceronte) trovi progressivamente sempre più aderenti, penetri sempre di più all'interno di una società fino ad assumerne il controllo. I personaggi di Ionesco diventano rinoceronti per i motivi più disparati, alcuni lo fanno per conformismo, altri per "combattere il sistema dall'interno" (eco, questa, dell'atteggiamento nei confronti del nazismo del Partito Comunista Tedesco, che spinse i propri militanti a iscriversi al NSDAP per combatterlo dall'interno), altri per il rifiuto della morale in favore della natura, altri ancora perché "i rinoceronti sono belli", ma alla fine, quali che siano le ragioni, la trasformazione interessa tutti, tutti tranne il protagonista Berenger che tuttavia nel suo monologo finale rimpiange di non essere diventato un animale come gli altri:

Avrei dovuto seguirli quand'ero ancora in tempo! Troppo tardi, adesso! E' finita, sono un mostro! Sono un mostro! Non diventerò mai più un rinoceronte, mai, mai mai... Non posso più cambiare. Vorrei tanto ma non posso, non posso!

(da "Il rinoceronte" di E.Ionesco)

Un testo meno simbolico ma simile al precedente per tematica è Come si diventa nazisti (che nell'originale suonava come The Nazi Seizure of Power: The Experience of a Single German Town, 1922-1945) di William Sheridan Allen. Allen segue le vicende di una città della provincia tedesca e mostra come possa accadere che, nel giro di pochi anni, un partito che aveva un peso elettorale marginale prima della crisi del '29 possa arrivare ad avere la maggioranza assoluta e rendere una società libera e democratica come la Germania di Weimar una dittatura totalitaria con un forte controllo sulla vita privata. Anche in questo caso, i motivi per cui gli abitanti si convertono al Nazismo sono i più vari, dalla paura per una possibile sollevazione comunista alla volontà di ripristinare l'antica grandezza tedesca contro il degrado della democrazia fondata dalla SPD, ma alla fine il risultato è molto diverso rispetto alle aspettative.

Ora, questi paragoni non indicano una mia volontà di paragonare l'Islam al nazismo, tutt'altro; mi interessa invece sottolineare come Houellebecq descriva in realtà come possa avvenire una mutazione strisciante all'interno di una società ma che alla fine porta a un suo cambiamento totale che sarebbe stato impensabile a priori. Ognuno, nel suo libro, ha i suoi motivi per amare il nuovo regime islamista: chi lo fa per ragioni biecamente sessuali, chi per opportunismo (il rettore della Sorbona Rudiger) chi per un bisogno spirituale misto ad una volontà di resistere al decadimento dell'età (il protagonista François), ma alla fine il risultato è che tutti i personaggi finiscono per sostenere un regime che incoraggia l'uscita delle donne dal mercato del lavoro e promuove l'istruzione islamica invece della scuola pubblica, laica e repubblicana.

Sottomissione è, in conclusione, secondo me, un libro sull'avvento di un totalitarismo velato in una società fragile. Devo comunque dire, per concludere, che non condivido in ogni caso la visione di Houellebecq dell'Islam come una religione intrinsecamente totalitaria e misogina; è, questa, una visione che mi sembra molto caricaturale e poco interessata a comprendere che l'Islam non è un blocco monolitico riconducibile al salafismo di matrice saudita, ma una galassia alquanto eterogenea che si è espressa in vari modi nel corso del tempo e che probabilmente cambierà ancora in futuro.

Ci vediamo presto con la seconda puntata della storia di Ferrer e di Verdi.

Auf wiedersehen!

lunedì 2 novembre 2015

A beginner's guide to Verdi's opera - Part 1: the early years

Giuseppe Verdi is probably the most important composer in Italian opera of all time. He had a very long career, having wrote his first opera in 1839 (Oberto, Conte di San Bonifacio) and his last, Falstaff, in 1893. During all those years, Verdi was the main figure in Italian musical culture and this was both a lucky thing, because Italian audiences could listen to some of the most wonderful operas in the history of music, and a problem, because no other composer could achieve a long-term success during Verdi's "reign".

Well, in this post I want to tell you about his life: let's discover together the wonderful life of Giuseppe Verdi.



Verdi was born in 1813, the same year as Wagner. He was born in a small village in Northern Italy, Le Roncole, in a very important moment in World history: the Russians had defeated Napoleon in Russia and were now running after the French army in Italy. They arrived in Le Roncole as well, a few time after Verdi's birth and destroyed everything (war hasn't changed since then, as we can see) and Verdi's mother saved the newborn child by hiding him in the local church.

A young Verdi with his mother and his father short after his birth in 1813; the house you can see behind them is the actual Verdi's birthplace. The house is still in Le Roncole (nowadays the village is called Roncole Verdi) and you can visit it. For more information, you can see this website

Verdi then grew and discovered music: he learnt to play organ in the church and probably listened to the brass bands which were so popular in Italy in those years and which still today are in some parts of the country. This is very important because we can see that, when he began to write operas, Verdi gave a great importance to brass and wind instruments, as if he were trying to recreate the sound of the brass bands he'd listened to during his youth.



Do you know Cinderella's tale, where a beautiful but poor young lady manages to marry a prince thanks to a gentle fairy? Well, Verdi's life has many in common with that tale, even if his parents were certainly not poor; Verdi tried to say they were "illiterate peasants" after he had reached success in order to show himself as a humble-origins-but-hard-worker self made man but we know for sure they weren't, they were small landowners and surely had enough money to lead a comfortable life. Nevertheless, the young Giuseppe could not have become the composer all Italy knew about if he hadn't met his Cinderella's fairy, Antonio Barezzi.

Antonio Barezzi

Antonio Barezzi was the richest man in Busseto, a small village near Le Roncole, and a music lover: he played flute and had founded in 1813 a Philarmonic Society in his village. Barezzi decided to give Verdi the opportunity to become a professional musician and sent him in Milan, paying his studies in there.

Verdi going to Milan
Verdi married Barezzi's daughter (I know that may seem an unimportant fact, but please remember it, it will be useful later) and went to Milan.

In 1836, Verdi married Margherita Barezzi, Antonio's daughter


In the 1830s, when Verdi arrived in Milan, Italy had two musical capitals. The first was in the South and was Naples, with its wonderful San Carlo Theatre where Rossini had premiered his most experimental operas in the 1810s and where now Donizetti had much success. The second was in the North and was Milan, with its Teatro Alla Scala which had been opened the 3rd of August 1778 with the premiere of L'Europa riconosciuta by Antonio Salieri. Yes, that Salieri, the guy who Amadeus shows as Mozart's rival in Vienna. Well, I'll tell you a secret: Salieri was not Mozart's rival and also helped him to get some work in Vienna, since they were both Freemasons. I hope I'll manage to talk about that in another post, now let's move on.

Milan could seem an inhospital city. My former double bass teacher lived there for a while and described it as cold, sad and foggy in the winter; Verdi could have said probably the same, since his beginnings in Milan weren't easy. He applied to attend the local Conservatoire, but his application was rejected. Then, he discovered the interesting side of 1830s Milan, which was its cultural life. Music was everywhere and all the most important Italian operas of the time were premeried or performed in one of the many theatres there were in the city. In Milan many operas by Bellini and Donizetti (the leading composers of the time) were represented and Verdi went and watched them.

Milan Conservatoire. Verdi applied to study piano in there but he was rejected. Later, after he had become famous, the Conservatoire wanted to change its name in "Giuseppe Verdi Conservatoire" in Verdi's honour, but Verdi refused by saying: "They rejected me when I was young, they won't have me now." Ironically, after Verdi's death the Conservatoire managed to change its name and today it is called "Conservatorio Giuseppe Verdi"

He was interested, in particular, by Donizetti's Lucia di Lammermoor and some authors think that, when he wrote Il Trovatore in 1853, he wanted to try to reproduce the atmosphere of that opera.

During his stay in Milan, Verdi finally achieved what every composer wanted: he was charged to write an opera. His first opera was called Oberto, Conte di San Bonifacio and was premiered in the Teatro Alla Scala in 1839. It had some success and it probably seemed the beginning of Verdi's career as a successful composer. It wasn't: Verdi's second opera, Un giorno di regno, was a fiasco. Some critics think the problem was not Verdi's music, but Felice Romani's libretto to the opera. Felice Romani was a very important librettist, at the time: he had written librettoes to the most important operas by Bellini and to some operas by Donizetti. His collaboration with Bellini, in particular, is worth to be remembered because it lead to the composition of La Sonnambula and Norma. But Verdi wasn't as famous as Bellini and Romani hadn't much time to write a libretto for him, so he gave him a libretto he had written a long time before and which was not so good. The result was the failure of the opera.

Verdi's first opera was Oberto, Conte di San Bonifacio in 1839

What's more, Verdi hadn't luck in his personal life as well. Do you remember Barezzi's daughter, Margherita? Do you remember she had married Verdi, don't you? Well, in 1840 she died. Verdi and Margherita had two children, Virginia and Icilio. Well, between 1839 and 1840 they both died as well.

Verdi felt despair. He was alone in Milan with no wife, no children, no further opportunities to write an opera. Everything had gone too bad for him, so he went back to Busseto and promised he would have never write any opera in the future.

Verdi going back to Busseto

Luckily, he then changed his mind, but we'll talk about this in the next episode.

See you soon!

Links:

The house were Verdi was born in Le Roncole is today a museum. You can find its website here (in English)


sabato 31 ottobre 2015

Morire a Buenos Aires: Horacio Ferrer, poeta del nuovo tango - Parte prima: Maria de Buenos Aires

Montevideo, Uruguay, da qualche parte negli anni Quaranta.

Astor Piazzolla, ex bandoneonista dell'orchestra di Anibal Troilo, ha appena terminato un concerto con l'orchestra che ha fondato quando viene raggiunto da un quindicenne del luogo. "Conosco un amico che quando ha scoperto la tua musica ha smesso di studiare, di innamorarsi, ha perfino abbandonato la famiglia" gli dice il ragazzino. "E chi è?" gli chiede Piazzolla. "Sono io" risponde il ragazzino.

Il ragazzino è Horacio Ferrer.



1. Tra Montevideo e Buenos Aires: una gioventù sul Rio de la Plata

Montevideo si trova sulla costa nord del Rio de la Plata, l'estuario dei fiumi Uruguay e Paraná che separa l'Argentina dall'Uruguay. Al di là del fiume, c'è Buenos Aires, con la sua struttura disomogenea di città cresciuta quasi a caso, con il suo passato di artefice del sottosviluppo dell'entroterra argentino, con la sua storia di porto che accoglieva storie e musiche provenienti da lontano. E, soprattutto, con il tango.

Plaza Independencia a Montevideo

Nel corso del tempo, si è passato il fiume per molti motivi. Per un lungo periodo, "passare il fiume" voleva dire fuggire, negli anni bui delle dittature sudamericane in cui nessun luogo era sicuro e si andava dall'Uruguay all'Argentina, dall'Argentina a Parigi, via via che l'onda nera antidemocratica affogava il continente. Ma a passare il fiume furono anche molti musicisti. Secondo alcune teorie, passò il fiume, in una fase imprecisata della sua infanzia, Carlos Gardel, probabilmente il più grande cantante di tango mai vissuto, e lo stesso percorso fu seguito da Horacio Ferrer, nato a Montevideo, che dopo il suo arrivo a Buenos Aires divenne il paroliere di riferimento di Astor Piazzolla.
   
In realtà Ferrer, prima di stabilirsi al di là del Rio de la Plata, aveva passato il fiume più volte. I parenti di sua madre, infatti, vivevano a Buenos Aires e molta parte della giovinezza del poeta fu passata a viaggiare da Montevideo alla capitale argentina. A Buenos Aires, Ferrer conobbe i due temi che avrebbero poi informato i suoi versi: la notte e il tango. Conobbe la notte porteña, dove avrebbero poi vissuto i suoi piantaos, le sue proletarie dell'amore, i suoi piccoli venditori di fiori; "La mia famiglia era amante della notte - ebbe a dire in seguito - e quindi uscivamo tutte le sere, foss'anche solo per prendere un caffè e, sia a Buenos Aires che a Montevideo, andavamo a teatro e andavamo a vedere i luoghi della vita notturna". Sulla riva occidentale del Rio de la Plata conobbe anche, grazie a uno zio, la malinconia dell'animo musicale argentino, quella malinconia che Piazzolla credeva essere una diretta eredità della cultura spagnola e napoletana.

Ma se Buenos Aires è estremamente importante per la formazione di Ferrer, fondamentale per lui è anche Montevideo. La Montevideo degli anni Cinquanta è una città molto attiva culturalmente; in particolare, è piena di teatri. Il giovane Ferrer ama il teatro: legge Ibsen, Shaw e sviluppa un particolare interesse per Shakespeare; "Shakespeare conosce l'animo umano - dirà in seguito - Sa rivelare i personaggi, rivoltarli come un guanto". Ed è proprio dal teatro che il giovane Horacio inizia la sua carriera artistica: nel 1962, nel Teatro Circular di Montevideo, presenta la sua prima pièce. La critica ha una risposta ambivalente; in particolare, si nota già, in questa prima opera, una certa complessità nel modo di scrivere che percorrerà poi i primi lavori del poeta.

2. Yo soy María: Ferrer e Piazzolla

Gli anni Sessanta sono quelli dell'incontro con Piazzolla, che avviene in seguito alla pubblicazione, nel 1967, del Romancero Canyengue, il primo libro di poesie di Ferrer. Ferrer diventa poeta, dunque, ma non abbandona il suo amore per il teatro: infatti, prenderà l'abitudine, che non perderà poi mai, di recitare le sue poesie accompagnato da un musicista (nel caso del Romancero, ad accompagnarlo fu il chitarrista Agustín Carlevaro), quasi a voler sottolineare la natura "viva" e "narrativa" della sua opera. Dirà Ferrer: "I versi non sono fatti per essere letti, sono fatti per essere ascoltati, come la musica." Era un'idea che veniva da lontano: infatti, fin dall'infanzia la madre di Ferrer aveva insegnato al piccolo Horacio a recitare poesie, lei che a sua volta aveva imparato a recitare dalla poetessa argentina Alfonsina Storni.

Dopo l'apparizione del libro, Piazzolla lo cerca dicendogli: "Se non vieni a lavorare con me, sei un imbecille". E Ferrer va a lavorare con lui, trasferendosi a Buenos Aires, città dove poi vivrà fino alla morte nel 2014. La collaborazione Ferrer-Piazzolla dà i suoi frutti fin da subito: l'8 maggio 1968, nella Sala Planeta della Calle Suipacha, viene fatta la prima di María de Buenos Aires, con Amelita Baltar e Hector de Rosas come protagonisti e lo stesso Ferrer come voce recitante. L'opera ruota intorno a una donna, María, nata in un giorno in cui "Dio era ubriaco", che conosce il tango, diventa una prostituta, viene uccisa e risorge e che forse è una rappresentazione simbolica della città di Buenos Aires.



E' interessante, come rileva Pellejero in El poeta de la redención vedere come in quest'opera e in generale nella prima fase della produzione di Ferrer sia molto presente un gusto per la creazione verbale e per il neologismo che poi progressivamente andrà perdendosi nelle opere successive. Di questa fase, comunque, rimarranno delle parole che saranno poi pervasive nelle poesie di Ferrer, come tangamente, che ritroveremo anche in "Balada para mi muerte".

Probabilmente, il brano più rappresentativo di María de Buenos Aires è la canzone in cui María presenta se stessa, un po' come avveniva nell'opera del Settecento e del primo Ottocento, in cui la prima volta che un personaggio entrava in scena cantava una Cavatina in cui diceva a grandi linee al pubblico chi era e cosa faceva (un esempio su tutti: "Largo al factotum" dal Barbiere di Siviglia). E cosa ci dice María di se stessa in questo brano? In effetti, la presentazione di María ricorda quella di una moderna Carmen: è una donna libera, amante del gioco della seduzione; se Carmen cantava "Si je t'aime/prends garde a toi!" ("Se ti amo, stai in guardia!"), María dice: "Cada macho a mis pies/como un ratón en mi trampa ha de caer" ("E ogni uomo ai miei piedi/come un topo nella mia trappola deve cadere").

Ma María è anche qualcosa di più: non è solo pasión fatal, è anche musica, è anche tango. Non ha in sé solo il fascino sensuale e sfuggente che assumono gli amori di gioventù nel ricordo e che tanti poeti e cantanti attribuirono a Buenos Aires, ma rappresenta anche il desiderio, così pervasivo in tanta cultura porteña, di abbandonarsi al canto, alla danza, alla trasfigurazione in musica della tristezza, dell'amore, della nostalgia, quasi come se la bellezza potesse davvero salvare il mondo come sosteneva il principe Myškin di dostoevskiana memoria, quasi come se ballare un pensiero triste (secondo una celebre definizione di Enrique Discépolo, uno dei più grandi autori di tango, il tango "è un pensiero triste che si balla") potesse renderlo quasi accettabile, quasi felice. In fondo, è quello che tutta la cultura mediterranea, da cui il tango deriva, cerca da sempre di fare, trasformare la tristezza, le delusioni e il dolore per i contrasti cui l'esistenza espone in una pienezza di senso data dalla musica: tutto ha senso perché può essere cantato, perché la musica e la poesia divengono un mezzo che consente di dare un orizzonte alla malinconia, all'abbandono, alla nostalgia.

Ma non divaghiamo. Dunque, María è anche tango e dice: "Se il bandoneón mi provoca tiará, tatá/gli mordo forte la bocca tiará, tatá/ con dieci spasmi in fiore che ho nel mio essere [...]". E' quello che dicevamo: la musica che consente di dare un senso al dolore, alla sofferenza personale, che consente di far emergere gli spasmi nascosti e di trasfigurare ogni cosa in un orizzonte in cui, per poco tempo, l'universo appare ordinato. E tutto diventa tango, diventa sogno:  "E canto un canto che nessuno cantò mai/ e sogno un sogno che nessuno sognò mai".

Potete ascoltare la canzone nel video seguente nella versione di Milva...


...mentre nel video seguente potete vedere una versione "on stage" della canzone in una rappresentazione di María de Buenos Aires andata in scena presso l'opera di Gand, in Belgio:


Di seguito trovate il testo e la traduzione (che ho fatto io, quindi se trovate degli errori potete segnalarli) di Yo soy María:

Yo soy María

Yo soy María de Buenos Aires!
De Buenos Aires María ¿no ven quién soy yo?
María tango, María del arrabal!
María noche, María pasión fatal!
María del amor! De Buenos Aires soy yo!

Yo soy María de Buenos Aires
si en este barrio la gente pregunta quién soy,
pronto muy bien lo sabrán
las hembras que me envidiarán,
y cada macho a mis pies
como un ratón en mi trampa ha de caer!

Yo soy María de Buenos Aires!
Soy la más bruja cantando y amando también!
Si el bandoneón me provoca... Tiará, tatá!
Le muerdo fuerte la boca... Tiará, tatá!
Con diez espasmos en flor que yo tengo en mi ser!

Siempre me digo "Dale María!"
cuando un misterio me viene trepando en la voz!
Y canto un tango que nadie jamás cantó
y sueño un sueño que nadie jamás soñó,
porque el mañana es hoy con el ayer después, che!

Yo soy María de Buenos Aires!
De Buenos Aires María yo soy, mi ciudad!
María tango, María del arrabal!
María noche, María pasión fatal!
María del amor! De Buenos Aires soy yo!

Io sono María 

Io sono María di Buenos Aires
Di Buenos Aires Maria, non vedi chi sono?
Maria tango, Maria della periferia!
María notte, María passione fatale!
María dell'amore! Io sono di Buenos Aires!

Io sono María di Buenos Aires
se in questo quartiere la gente domanda chi sono
presto lo sapranno molto bene
le donne che mi invidieranno,
e ogni uomo ai miei piedi
come un topo deve cadere nella mia trappola!

Io sono María di Buenos Aires!
Sono la più grande strega che canta e che ama al contempo!
Se il bandoneón mi provoca... Tiará, tatá!
Gli mordo forte la bocca... Tiará, tatá!
Con dieci spasmi in fiore che ho nel mio essere!

Sempre mi dico: "Andiamo, María!"
Quando un mistero si arrampica nella mia voce!
E canto un canto che nessuno mai cantò
e sogno un sogno che nessuno mai sognò
perché il domani è oggi e dopo viene ieri, che!

Io sono María di Buenos Aires
Io sono Maria di Buenos Aires, la mia città!
Maria tango, María della periferia!
María notte, María passione fatale!
María dell'amore! Di Buenos Aires sono io!

Nel testo, possiamo notare un certo gusto ermetico che ritroveremo anche in seguito nell'opera di Ferrer e che è abbastanza caratteristico della sua produzione.

Ma forse è il momento di fermarsi un attimo. Ci rivediamo dopo la pubblicità.

domenica 27 settembre 2015

Verdi nel metro: storie di banlieue sotto la pioggia d'autunno





1. L'automne est là

Mettiamo un po' di musica diversa per la prima pioggia d'autunno...


Come dice il poeta, sous la pluit fine l'automne est là. E con l'autunno tornano a spegnersi i sogni gloriosi dell'estate, a infrangersi di fronte alla scoperta dolorosa della loro vanità. C'è stato un tempo in cui ci dicevano che l'estate sarebbe durata in eterno, anno dopo anno, ci spingevano a immaginare il futuro come una lunga strada che ci avrebbe permesso di realizzarci al meglio, come nessuna generazione aveva fatto prima. Poi venne l'autunno con la rivelazione che Fukuyama era fondamentalmente un coglione e che la storia non prevede happy ending come una commedia romantica hollywoodiana. Avevamo creduto di andare su una strada dritta verso l'infinito, come Peter Fonda in Easy Rider sulle sconfinate praterie americane, e invece era soltanto il breve rettilineo di un sentiero di montagna.

Forse ci avevano fregato oppure forse ci avevano creduto sinceramente. Non lo so. Ma le piogge d'autunno spazzarono via le immagini gloriose e ci lasciarono i nostri sogni di banlieue da inventare per scacciare via la tristezza. Di tutto quello che ci avevano promesso, rimase il desiderio di una vita tranquilla. Di una vita normale.

Oggi è ancora autunno e camminando sotto la prima pioggia con una lieve incazzatura legata al fatto che ho lasciato l'ombrello a casa (sono un inguaribile ottimista), mi viene in mente quel personaggio di Gozzano che

sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse,
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

Anche a lui erano rimasti solo i sogni di banlieue per affrontare quella realtà inquieta che sarebbe andata a schiantarsi nella carneficina della guerra.


2. Le storie di banlieue di Giuseppe Verdi

Ho aperto questo post con una canzone che viene da quello che a mio parere è l'album migliore di Manu Chao, Siberie m'était contéee, una visione poetica delle figure e dei fantasmi (Helno est mort è dedicata al cantante delle Negresses Vertes morto di overdose nel 1993) che popolano la banlieue parigina. E' un album che amo molto, forse perché parla di una vita di sogni spezzati che non scorre trionfale verso domani luminosi, ma che si compone di frammenti, di momenti passati a fumare una sigaretta a mezzanotte sul Boulevard Brune, di tradimenti, di giorni di pioggia sulle foglie morte dell'autunno. Non c'è speranza di redenzione, nei testi di questo disco, ma al tempo stesso non c'è nemmeno lo sguardo fintamente compassionevole delle caritatevoli signore altoborghesi di inizio secolo à la Sybil Birling in An inspector calls di Priestley, il paternalismo di chi in fondo è convinto che chi ha molto meno di lui se lo meriti. In questo disco c'è solo la vita così com'è, in considerazione del fatto che in fondo non ci sono seconde possibilità e quindi bisogna cercare di trarre un po' di felicità dalle condizioni che ci sono date.

Ed è per motivi molto simili che amo Verdi. Il Verdi di Rigoletto, il Verdi della Traviata, il Verdi che mette gli outsider al centro del palco e dà loro voce senza condannarli, ma con una sottile simpatia. C'è molto delle storie di banlieue delle nostre città battute dalla crisi nelle vicende del buffone costretto ad annegare la propria individualità nel ruolo che si è dovuto ritagliare per uscire dalla povertà. E forse, in un sistema economico sempre più competitivo e disumanizzante, molti si possono riconoscere in quel "Ma in altr'uomo qui mi cangio!" che Rigoletto pronuncia rientrando a casa.





Il mio maestro di composizione qualche anno fa mi disse che non pensava che Verdi fosse attuale. Mi permetto di dissentire: Verdi ci parla dell'oggi, delle nostre Violette emarginate dal pregiudizio sociale, degli Tsipras che, come il Filippo del Don Carlos, devono anteporre il rispetto di equilibri sanciti da organismi dall'aura quasi sacra (la Chiesa del Grande Inquisitore nell'opera, la BCE nella tragedia greca odierna).


E ci parla di noi, che con il sorriso di Falstaff guardiamo il cielo sapendo che "Tutto nel mondo è burla".





venerdì 11 settembre 2015

Lessico abruzzese - Steve Stifler on the beach

Meine lieben Leserinnen und Leser, so' turnat'.

So che vi sono mancato profondamente; purtroppo, tra sessioni di esami e giorni persi in pigrizia (come dice il poeta) sulle incasinatissime spiagge abruzzesi, il tempo per scrivere è poco e quello per respirare molto meno. Comunque, sono sopravvissuto, as usual.

Il ritorno nella terra dei padri abruzzese ha comunque dato i suoi frutti. Infatti, oltre ad aver appreso interessanti espressioni locali che riutilizzerò al più presto, ho tratto dalla mia permanenza da balenottero spiaggiato sotto il sole di agosto alcune massime di vita fondamentali. La prima: potrai studiare quanto vuoi, ma la vicina di ombrellone conoscerà sempre la farmacologia meglio di te (non che poi ci voglia tanto...). Tu pensavi che gli effetti collaterali dei farmaci fossero un discreto casino da ricordare, che fosse umanamente impossibile, e poi spunta fuori lei, che con marcato accento del nord ti snocciola tutte le reazioni avverse dei beta bloccanti come se fossero la cosa più semplice del mondo in una lunga discussione sui problemi che le medicine danno a sua mamma. Il corollario di ciò è che per diventare medico non serve studiare: basta avere una mamma anziana e acciaccata e hai risolto il problema alla radice.

"E poi gli hanno dato il calcio antagonista, ma gli faceva venire l'edema alle gambe, poi hanno provato con il beta bloccante ma le faceva venire l'abbassamento di pressione..."

Seconda lezione di vita fondamentale: non fare mai progetti per le vacanze. Avevo grandi piani per quest'estate: scrivere, praticare il mio inglese & il mio francese, suonare molto e avvantaggiarmi con lo studio per gli esami di settembre. Risultato: ho passato mezza estate a ridere come un cretino sui film più scemi di Eddie Murphy e su perle tipo questa...

Per la cronaca: la foto non l'ho fatta io, viene da Nonciclopedia

...e al ritorno l'unica cognizione che ho di quanto è successo nel mondo durante la mia permanenza nella grande Heimat abruzzese è che Renzi ha preso in giro i tifosi del Teramo, i quali hanno signorilmente risposto nella seguente maniera, che definirei chiara e concisa:

Foto da: http://news-town.it/foto-del-giorno/8997-renzi-ironizza,-teramo-risponde.html

Terza massima di vita: se vuoi smettere di prendere sul serio la gente, pensa che tutti hanno avuto tredici anni. La rivelazione arriva verso le due e mezza di notte, dopo una pizza con il tipico amico che vedi quindici giorni l'anno e con cui quindi puoi dedicarti alla nobile arte della gara di rutti tanto poi parte e non lo rivedi più fino all'estate prossima. Sera fresca, sbronza media per lui, stanchezza forte per me e lui attacca un lungo discorso su qualcosa che sta a metà tra la storia romana e qualche filosofo tedesco non meglio precisato.

E' allora che ho l'illuminazione. Improvvisamente lo vedo a tredici anni, intento a scrivere poesie orrende sulla solitudine che nessuno leggerà mai. O a immaginare un grande amore con la tipa del primo banco che prometteva tanto bene e se la tirava tanto e che ora sembra un camionista cileno rasta e gli fa ciao ciao dalle notifiche di Facebook come modesto ricordo della miopia dell'età più bella. Miopia che peraltro giustifica determinate osservazioni ecclesiastiche non sostenute da ricerche scientifiche adeguate sul fatto che masturbarsi eccetera eccetera.

Abbiamo avuto tutti tredici anni e abbiamo visto tutti American pie, quindi ora potete citare tutti i Max Weber che volete, ma lo sappiamo bene che anche voi aspettavate il momento in cui la biondona usciva le tette al minuto 16:47. Quindi, quando la sera mi incontrate e avete tanta tanta voglia di fare sfoggio delle vostre cognizioni sul mondo, non mi ammorbate per tre ore filate, tanto lo so che qualche anno e brufolo fa applaudivate quando sullo schermo della televisione appariva lui:


Se hai conosciuto una persona a tredici anni, non la prenderai mai sul serio. Se non vuoi prendere sul serio una persona, pensa che ha avuto tredici anni. E ora può raccontare quello che vuole, fare discorsi di livello e raccontarti la poesia della vita, ma a tredici anni era anche lui un simpatico pessimista cosmico che leggeva romanzi d'ammore di seconda tacca del tipo lui-vede-lei-lei-vede-lui-loro-arrossiscono e guardava film che a confronto Moccia è un regista serio.

Quarta massima: Mao aveva ragione: la rivoluzione non è un pranzo di gala. E' un pranzo abruzzese. Richiede una lunga preparazione, tanta fatica, molto tempo per raggiungere l'obiettivo e alla fine il risultato è un gran mal di pancia e una significativa cagata alle cinque e un quarto del pomeriggio. Cagata che, giustamente, viene ispirata a tutti contemporaneamente con conseguente formazione di code sulla tangenziale giardino-bagno. Se Lenin fosse stato in Abruzzo, l'URSS non sarebbe esistita.

Non che a me non piacciano questi pranzi, tutt'altro. Permettono di ricordarti che non sei solo al mondo. A farti compagnia ci sono un miliardo e mezzo di cinesi e quattro o cinquecento parenti dal sedicesimo al novantatreesimo grado che si palesano solo una volta all'anno in occasione delle feste comandate. "T'arcurd' a zia Graziella?" ti dicono presentandoti un'allegra signora che sembra Dustin Hoffman in Tootsie e che ti apostrofa con un caloroso: "Uèèèè, Gabbriè, i' m'arcurd quando eri bardash!".

Nota per i non native speakers: arcurd' sta per praticamente tutta la coniugazione del presente singolare di ricordare. Bardash vuol dire "bambino" ed è una parola che mi ha sempre affascinato perché ha un plurale irregolare con tanto di metatesi qualitativa così tanto per gradire: Bardish. Tra l'altro, mi piacerebbe chiarirne l'etimologia.

Ma tornando a noi: la cosa interessante di questo incontro con zia Graziella è che tu non hai la minima idea di chi sia. Chiedi lumi a tuo padre (prima che si lanci in un'invettiva sociale con il cugino politicizzato) e lui ti spiega: "E' la cugina del marito della sorella del nonno". E tu: "Ah."

E intorno a voi il mondo si muove: a capotavola si discute sul numero esatto di sfoglie da utilizzare per le lasagne, più in giù si organizza un'insurrezione armata contro la giunta comunale rea di aver potato gli alberi della pineta vicino al mare, in fondo a destra, accanto al bagno, si approfondisce l'epidemia di cacarella infettiva che ha colpito i bagnanti tra Scerne e Pescara. Insomma, il tutto sembra "Le nozze di Cana" del Veronese: cibo e parenti (fino al quarantacinquesimo grado) ovunque (segue immagine).



Ma l'intervallo sta finendo, le luci lampeggiano e noi dobbiamo parlare di Verdi. Rientriamo in sala...